“La mamma di una mia cara amica di nome Blessing mi ha proposto di venire a lavorare in Italia, da Jessica che ha un bar. Il giorno prima di partire sono stata sottoposta a un rito ju-ju da parte di un native doctor (un santone, ndr) in una città vicino a Benin City. Oltre a me c’erano Blessing ed un’altra ragazza di nome Glory mai vista prima. Io ero accompagnata da mio zio. Quando siamo arrivate lì ci sono state consegnate delle vesti bianche da indossare durante il rito. Ci hanno fatto dei piccoli tagli sulla fronte per prendere del sangue e ci hanno preso anche dei pezzetti di unghie delle mani. Tutte e tre abbiamo dovuto bere una bevanda alcolica e mangiare una sostanza di nome cola. Poi le altre due ragazze hanno mangiato un pezzo di cuore di una gallina appena uccisa mentre al posto mio l’ha fatto mio zio. Con questo rito tutte e tre siamo state costrette a giurare di restituire la somma di 25mila euro a Jessica in Italia, lavorando nel suo locale. Nel caso avessimo infranto il giuramento ci è stato detto che saremmo morte”.
È lo straziante racconto di una vittima di tratta alla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Il suo nome è riservato, perché vive ancora in una struttura protetta. Amadi (la chiameremo così) è arrivata a Reggio nel 2014, dopo un viaggio in cui ha attraversato il deserto del Niger fino alla Libia. Poco più che ragazzina, a 21 anni, stipata in un barcone ha tentato di raggiungere il nostro Paese. Salvata in mezzo al Mediterraneo da una nave militare, la ragazza è scappata dal centro di accoglienza grazie all’aiuto di alcuni connazionali. Poche ore dopo era già a Bari, dove il “bar di Jessica” ovviamente non esisteva. Era una “connection house”, un’abitazione in cui le ragazze venivano violentate e picchiate. Anche lei è stata costretta a prostituirsi per ripagare il proprio debito. Non è riuscita a farlo e le è stato rubato anche un figlio, nato da uno stupro subito da Favour Obazelu. Obazelu, che si fa chiamare “Fred” o “Friday“, è uno dei boss della mafia nigeriana e capo di un culto chiamato “Supreme Vikings Confraternity”. Ha organizzato tutto lui, dal rito voodoo al viaggio della speranza, fino allo sfruttamento del corpo di Amadi.
Le accuse – Con le accuse di riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, sequestro di persona e violenza sessuale, l’uomo di 43 anni è stato arrestato nei giorni scorsi dalla polizia, che ha condotto le indagini coordinate dal sostituto procuratore della Dda Sara Amerio, il pm a cui il procuratore capo di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri ha affidato le inchieste sul contrasto ai reati legati all’immigrazione. L’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip Vincenza Bellini su richiesta della Dda, è stata notificata dalla squadra mobile nel carcere di Agrigento, dove “Friday” Obazelu è già detenuto dal 2019 perché coinvolto nell’inchiesta “Drill” della Procura di Bari che lo accusa di far parte di un’associazione a delinquere di stampo mafioso denominata Cults. È la mafia nigeriana: i “Vikings”, infatti, sono una sorta di cosca, si fanno chiamare “i rossi” e sono “operativi” – è scritto nelle carte della Dda – “tra la Nigeria e l’Italia. E in particolare a Reggio Calabria, Bari e in altre città della Puglia”. Obazelu è indagato assieme al fratello, Eghosa Osasumwen detto “Felix” che adesso vive in Germamia. Con altri soggetti rimasti ignoti, che si trovano in Libia e in Nigeria, entrambi sono accusati pure di associazione a delinquere. Il nigeriano arrestato, per la pm Amerio, è il promotore di un’organizzazione criminale transnazionale che ha reclutato in patria ragazze da condurre con l’inganno in Italia.
Il viaggio – Amadi era una di queste. Per le angherie subite sono indagati altri tre nigeriani, un uomo e due donne. Partendo dai verbali della ragazza, oggi ventottenne, i magistrati hanno inchiodato “Friday” Obazelu che, durante l’interrogatorio di garanzia, si è difeso sostenendo di aver commesso i reati sotto effetto di alcol. La realtà, però, era diversa. Agli investigatori della squadra mobile reggina, guidata da Alfonso Iadevaia, l’ha svelata Amadi il cui racconto, secondo il gip Bellini, è pienamente attendibile. Il suo calvario è iniziato in Nigeria il giorno dopo il rito voodoo: “Tra maggio e luglio 2014, siamo partiti alla volta dell’Italia”, ha ricordato. “La prima parte del viaggio l’abbiamo fatta con un autobus di linea. Eravamo in sette, tre ragazze, io Blessing e Glory, e quattro ragazzi tra cui Eghosa (il fratello di Friday, ndr). Dopo un viaggio molto duro siamo arrivati in Libia a Saba. Qui noi ragazze siamo state separate dai ragazzi e siamo state collocate in una connection house dove siamo state tutte violentate e picchiate da vari uomini. Siamo rimasti a Saba circa una settimana e poi siamo arrivati a Tripoli, di nuovo tutti e sette insieme. Appena le condizioni del tempo lo hanno permesso, siamo stati imbarcati su un grande gommone assieme a molta altra gente. Siamo partiti verso il mare aperto. Dopo alcune ore di navigazione siamo stati recuperati da una nave che ci ha poi sbarcati a Reggio Calabria”.
La schiavitù – Collocati in un centro di accoglienza, le tre ragazze e il fratello del boss sono riuscite a scappare grazie all’intervento della mafia nigeriana. Giunti a Bari, “durante i primi tre giorni di permanenza ci hanno vestito, pettinato e rese più presentabili”. Il motivo, Amadi, lo ha compreso da lì a poco quando la maitresse “Jessica” ci ha fatte preparare e siamo uscite. Ci ha portate vicino a delle ragazze che si stavano prostituendo. Qui ci ha detto che per noi non c’era nessun lavoro al ristorante e che l’unico modo che avevamo per restituire il debito che avevamo contratto era quello di prostituirci”. Le regole erano chiare e Amadi, a distanza di qualche anno, le ricorda bene: “Ci ha consegnato i preservativi e ci ha dato le istruzioni su cosa fare. Ci ha detto che avremmo dovuto pagare 150 euro al mese per l’affitto, 50-60 euro al mese per il vitto e 200 euro al mese di joint (occupazione della postazione). Tutto quello che riuscivo a guadagnare in più lo consegnavo a Jessica e Friday a titolo di rimborso del mio debito. Alle nostre iniziali resistenze ci ha picchiato e minacciato dicendo che saremmo morte come conseguenza del rito ju-ju a cui eravamo state sottoposte se non avessimo mantenuto fede al nostro giuramento di restituzione del debito”.
Gli abusi – Il boss non faceva solo prostituire Amadi, ma abusava sessualmente di lei e delle altre ragazze: “Approfittando delle assenze che Jessica faceva per recarsi in ospedale in quanto era malata, ha violentato sia Glory che me in più di qualche occasione. Dopo due mesi che ero arrivata a Bari, sono rimasta incinta di Friday”. Quando hanno saputo che Amadi aspettava un bambino, lui e la moglie Jessica hanno cercato di farla abortire dandole “quaranta pillole di non so cosa nell’arco di due giorni”. “Nonostante tutto”, prosegue la ragazza nel verbale, “ho portato a termine la gravidanza”. Il bambino è nato all’ospedale di Bari, ma “dopo una settimana sono stata rimandata nuovamente sulla strada a prostituirmi”. Lo ha fatto pure “durante tutta la gravidanza fino al giorno in cui non mi hanno ricoverata e fatto il cesareo”.
Il clan – Gravemente ammalata, a un certo punto Jessica è morta: il posto della moglie del boss è stato allora preso da Glory, una delle ragazze arrivata dalla Nigeria assieme ad Amadi. “Visti i miei orari che non mi permettevano di accudire mio figlio, erano Friday e Glory che si prendevano cura di lui. Durante la mia permanenza a Bari ogni tanto, spesso di nascosto con telefoni prestati da altre ragazze che lavoravano in strada come me, riuscivo a parlare con mia madre in Nigeria e lei mi diceva di smetterla con quella vita. lo provavo a dirlo a Friday con l’unico risultato di essere picchiata e minacciata”. All’interno della “connection house”, inoltre, Amadi assisteva agli incontri del Cults: “Friday è un capo di un culto chiamato indifferentemente Arubaga o Vikings. Durante la mia permanenza a Bari ho visto che ogni domenica riceveva un gran numero di uomini con i quali si riuniva. Bevevano alcol, cantavano ed a volte celebravano un rito d’ingresso per nuovi adepti. Durante il rito, l’aspirante adepto veniva picchiato ed attraverso un piccolo taglio a un dito ne prelevavano un po’ di sangue che veniva diluito nelle bevande e bevuto dai presenti. Non so quale sia lo scopo di questo gruppo, ma so che se violano il vincolo del segreto verranno uccisi”.
Il rapimento – In uno di questi incontri, nel dicembre 2015, Friday Obazelu “ha iniziato ad insultarmi e mi ha spintonato fino a farmi cadere sul letto con il bambino. I ragazzi presenti sono quindi intervenuti in mia difesa. Lui si è arrabbiato ancora di più e li ha mandati via tutti. Poi ha detto a Glory di prendere il bambino e mi ha buttato fuori di casa chiudendomi fuori”. Dopo aver dormito per un periodo alla stazione ferroviaria, Amadi è finita prima a Torino, da un’amica, e poi a Palermo dove è stata sfruttata da altri connazionali. Il neonato è sempre rimasto a Bari con il padre, il boss che lo ha pure riconosciuto: “Friday ha chiamato mia madre dicendole che se io avessi terminato di pagare il mio debito avrei potuto riavere il mio bambino. Ho molta paura di non poterlo rivedere più”, si sfoga Amadi al termine dell’interrogatorio. Il figlio di Amadi è nato l’8 agosto 2015 e quando le è stato strappato aveva quattro mesi. Adesso ha circa sei anni.