Ho atteso, seguito gli eventi, parlato con le persone, girato l’Italia da Trapani a Milano. Ho cercato di capire cosa stesse accadendo. Lo faccio da marzo 2020. E lo faccio perché fin da principio ho avuto una sensazione, che poi è diventata una tesi: che questo caos sanitario, questi due anni, avrebbero scosso il torpore delle nostre vite, le avrebbero rimesse in movimento.

Un intero sistema socioeconomico non può cambiare dall’oggi al domani, neppure in due anni, neppure per una pandemia. Ma non è questo il punto. Tutte le grandi evoluzioni, perfino le rivoluzioni, partono sempre da un’élite. Un’élite non è un gruppetto di benestanti dotati di posizioni di privilegio, denaro e potere. Questo è un concetto banale e superato. Una élite, oggi, può essere composta da una minoranza di persone che per mille ragioni pensa in modo diverso dalla maggioranza. Cioè vede cose diverse, le elabora con strumenti diversi, puntando a un diverso obiettivo. Queste minoranze, com’è sempre stato nella storia dell’uomo dai primordi fino a oggi, sono destinate a cambiare il corso della vita, delle società. Di tutto.

Oggi più che mai, scossi tutti da un disagio significativo, dal cambiamento estetico della nostra vita, dalle nostre abitudini comportamentali, aggregative, lavorative, sociali, si è visto con chiarezza che le reazioni per fronteggiare un nuovo comune scenario possono essere molto diverse tra loro. La gran parte ha patito e basta, della solitudine, delle proprie case, del cambiamento delle abitudini lavorative e ricreative, del mutamento delle consuetudini sociali e dei ritmi vita-lavoro. Una minoranza, invece, non si è limitata a constatare e soffrire. Incuriosita, vispa, pronta, ha elaborato. Si è accorta che qualcosa nella sua mente e nel suo cuore faceva “click”. Ha dunque colto l’occasione per velocizzare processi già in corso.

Questa è la nuova élite in movimento, il fenomeno sociale più importante e potente del momento.

Per lo più, nessuno l’ha vista questa élite, nessuno si è accorto della sua esistenza. Tutti troppo infervorati a avversare le decisioni governative per parare l’emergenza, o a sostenerle. Il solito teatrino dei guelfi e dei ghibellini, dei bianchi e dei neri. La maggioranza della gente, dunque di noi, adora la contrapposizione dei “due partiti”, e mette tutte le sue energie per “aderire”. La maggioranza vuole la divisa, vuole gli alamari, vuole le bandiere, per sentirsi parte di un grande schieramento, pronta a lottare (sempre a parole) per le ragioni dell’uno o dell’altro (raramente per le proprie).

Eppure, mentre tutti schiamazzavano, un piccolo gruppo di persone non parlava poi tanto, anzi, pensava, cercava di vedere, studiava come fare.

Questa minoranza non ha perduto tempo, perché ha compreso presto che la pandemia rivelava tutte le fragilità del nostro schema di vita. E se n’è seriamente preoccupata. Un virus prima o dopo passa, ha pensato, ma le fragilità del sistema restano. Trasporti, abitazioni, lavoro, tempo libero, comunicazioni, spazio, natura, cibo, movimento, relazioni, denaro. Tutto è apparso fin troppo chiaramente nella sua vera dimensione, e cioè mal fatto, mal messo, in bilico, troppo legato a un solo fattore, che fosse l’energia o la logistica, che fosse l’eccessiva contiguità delle persone o il disgregamento di una comunità in atto ormai da decenni.

Chi è uscito con le ossa più rotte di altri, ad esempio, è la città. Un’organizzazione sociale che oggi appare più superata che mai. Niente natura, niente spazi, niente autosufficienza individuale, estrema esposizione al rischio. Difficile fuggirne, impossibile che protegga. Nata per garantire e difendere le persone inermi, la città è diventata una trappola. In case piccole, costose, prive di sbocco, qualcuno si è sentito morire.

Questa minoranza, un’autentica élite, ha elaborato allora i virgulti di un proprio piano di cambiamento. E non ha perduto tempo, tanto che ora è in marcia. Con un unico rammarico: chi ne fa parte è convinto di essere solo, o almeno isolato in questo modo di pensare e agire. L’èlite insorgente non ha alcun sentore della propria appartenenza, pensa che il mondo si divida in guelfi e ghibellini e lui è l’unico a non essere né l’uno né l’altro. Dunque è una élite priva di “coscienza di classe”, come si sarebbe detto quando ero ragazzo. Non ha quindi (ancora) un impatto moltiplicato, ma vale uno per uno, uomo su uomo, donna su donna. Eppure, sta già modificando l’assetto della propria esistenza, e c’è da scommettere che, a seguire, tutto cambierà, gradualmente. Com’è sempre stato.

Oggi che tutto torna più o meno alla normalità, la società si ritrova spaccata e indebolita dagli “impauriti cronici” (quelli che hanno avuto più paura del dovuto) e dai “reduci” (quelli che a breve, vedrete, si appunteranno al petto la medaglia del coraggio, meritata da chi è uscito vivo dal Vietnam senza vaccino). Ma entrambi i gruppi, cioè la maggioranza del Paese (dei Paesi, giacché dovunque, nel Nord Ovest del Pianeta, è accaduta la medesima dinamica) torneranno alla vita precedente, oggi evidentemente fragile e malmessa, senza alcun impatto sul miglioramento di essa e delle proprie singole esistenze. Hanno perduto tempo, cioè hanno commesso il peccato capitale. Non hanno elaborato la contemporaneità nella sua clamorosa e palese evidenza. Si sono accontentati di parteggiare per qualcosa che era già superato dalla storia.

Solo un piccolo nucleo di persone è in movimento. Cambiano e cambieranno il loro modo di lavorare, vivere, nutrirsi, muoversi, comunicare, pensare, produrre. E così saranno gli unici pronti a resistere alle prossime crisi. Quelle, assai più gravi, che bussano già alle porte.

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