Se il desiderio di dar vita a mondi immaginari (siano essi racchiusi in un disegno, un racconto o una musica) è forse antico quanto l’uomo stesso, risale invece al 1938 l’affascinante espressione réalité virtuelle, con la quale Antonin Artaud amava riferirsi all’esperienza teatrale. Occorrerà tuttavia attendere la seconda metà del Novecento per poter assistere a esperimenti tecnici quali Sensorama (1957) di Morton Heilig, Sword of Damocles (1968) di Ivan Sutherland e Aspen Movie Map (Mit, 1978). Sarà però soprattutto grazie a serie come Star Trek: The Next Generation e a dispositivi immaginari come il mitico casco Holodeck che la realtà virtuale inizierà a farsi notare dal grande pubblico.
Tornando nel presente, molti di noi avranno probabilmente ancora in casa un televisore 3D con gli occhiali ben riposti nel cassetto. Perché non ha funzionato? Costava tanto, richiedeva scomodi occhiali, i film erano pochi e il 3D dava fastidio? E il cinema 3D che fine ha fatto? Era caro, i titoli non erano poi molti e dava un po’ di nausea? Qualcuno ricorda ancora i Google Glass? Troppo costosi, fastidiosi e con poche infrastrutture disponibili per la realtà aumentata? A proposito, e la realtà aumentata? Non quella dei Pokémon per intenderci, ma quella del Mirrorworld immaginato da Kevin Kelly e Keiichi Matsuda. E la realtà virtuale come se la passa, se perfino Gabe Newell (capo di Valve) afferma: “Siamo anche ben consapevoli che potrebbe rivelarsi un completo fallimento”. Oculus Rift rischia davvero di finire come il Virtual Boy di Nintendo e tutti gli altri caschi, tute, guanti, sensori e occhiali dimenticati dalla storia della tecnologia?
Sembra, quasi fosse una maledizione, che tutti i tentativi (parziali, ibridi o totali) di spingere gli utenti a fruire di film, giochi e servizi tramite strumenti che “tridimensionalizzano la percezione”, si infrangano contro reticenze che, dopo anni di costosi fallimenti, appare poco saggio continuare a liquidare con le solite motivazioni tecnico-economiche. Forse, i grandi produttori dovrebbero finalmente domandarsi se non ci siano delle ragioni antropologiche, biologiche, culturali o evolutive che ci rendono refrattari nei confronti di modalità di fruizione che cercano di “inglobarci percettivamente” in esperienze che siamo serenamente abituati a vivere dall’esterno, seppur immersi nella finzione del gioco o della narrazione filmica.
Comunque, nel tentativo donchisciottesco di attribuire ancora un pensiero umanistico alle grandi multinazionali del silicio, è possibile che i loro super consulenti abbiano scartato queste ipotesi, valutando più semplicemente che, dopo quarant’anni d’intrattenimento tout court, il terreno fosse finalmente pronto per la semina. Vedremo… Nel frattempo, possiamo solo constatare che i primi segnali non sono particolarmente incoraggianti e che, nonostante sia presto per emettere inutili sentenze, se la realtà virtuale continua a non prendere piede, le ragioni vanno forse cercate anche al fuori del dominio della tecnologia e del mercato.
Le ultime scoperte in ambito evoluzionistico, ad esempio, ci dicono che l’uomo, nei secoli, si è dovuto adattare a un ambiente nel quale è stato a lungo una preda. In questa “giungla”, i nostri sensi erano piuttosto importanti per sopravvivere. Escluderli, totalmente o parzialmente, potrebbe essere una scelta che, magari inconsciamente, non facciamo troppo volentieri. Giocare per tante ore davanti a un monitor è una cosa, stare altrettanto tempo confinati in un casco, è tutt’altra. A ben pensarci infatti, l’idea di stare in un luogo (per quanto familiare) senza poterlo più percepire, trasmette immediatamente una certa sensazione di vulnerabilità. Mi riferisco qui in particolare a esperienze ludiche di realtà virtuale “totale” praticate con caschi, guanti, cuffie e altre “periferiche invasive”. Inoltre, sia per queste esperienze più hard che per fruizioni passive (come vedere un film in 3D) o ibride, come la realtà aumentata, occorrerebbe almeno considerare l’idea che il nostro sistema percettivo possa trovarsi non del tutto a proprio agio nel gestire mondi sovrapposti, in cui alcuni sensi sono utilizzati di qua, mentre altri restano occupati di là. In tutti i casi (e con tutte le dovute distinzioni) pur visitando affascinanti universi virtuali, una parte di noi resterà pur sempre “agganciata” (magari in background) al mondo fisico.
Sebbene le mie siano solo ipotesi, ciò che è certo è che dal punto di vista evolutivo non si registrano precedenti accomunabili a quello della realtà virtuale, o esperienze umane di cui la realtà virtuale possa essere ragionevolmente considerata una diretta discendente. Insomma, se l’automobile può essere vista come l’evoluzione della carrozza, il caleidoscopio non può certo essere valutato come un antenato del casco 3D… Tuttavia, esperienze extracorporee, stati alterati della mente e trascendenze varie non sono certo assenti nella storia dell’uomo, e forse anche per questo il problema non è tanto quello di una nostra incompatibilità strutturale nel “visitare altri mondi”, quanto piuttosto il modo in cui la tecnologia pretende oggi di farcelo fare.
A mio modestissimo avviso, il mancato successo della virtual reality (ad oggi) risiede nel fatto che essa richiede all’utente una gestione simultanea di realtà che, non escludendosi a vicenda, si sovrappongono percettivamente. Questa mia convinzione trova una piccola grande conferma sia nella letteratura, che in una certa filmografia di fantascienza in cui per accedere a realtà alternative, il soggetto diviene sempre incosciente nella propria. In film come Matrix, Ghost in the Shell, Inception, The Thirteenth Floor, i protagonisti che si calano in altri mondi, si “addormentano”. Il loro corpo (collegato a vari strumenti) giace, mentre la mente è libera (espressione non certo casuale) di vagare.
Al di là delle naturali differenze e sfumature che caratterizzano ogni storia, il dato fondamentale è che le due realtà (che coesistono a livello temporale) si escludono a livello percettivo-cosciente. Si sente, vede, tocca, annusa e gusta in una sola realtà alla volta, quella fisica se si è svegli sulla nave di Morpheus, quella virtuale se si è connessi a Matrix. Sono convinto che questa scelta sempre adottata dai grandi scrittori di fantascienza, notoriamente più colti dei magnate dell’intrattenimento, sia tutt’altro che un mero espediente narrativo, quanto un’intuizione profondamente legata ad una maggiore conoscenza dell’uomo, della sua storia evolutiva e al fatto che, in fondo, nulla più di un sogno somiglia a un viaggio nella realtà virtuale.