Ieri mattina Tatiana, la colf che lavora per la mia famiglia, mi ha chiesto con le lacrime agli occhi: “Signora, alla tv rumena hanno detto che tutti gli uomini dai 25 anni in su devono tenersi pronti a combattere nel caso la Russia ci invada. È vero?”. “Tatiana, ma no, tranquilla… perché la Russia dovrebbe invadere la Romania“. “Perché siamo vicini, confiniamo con l’Ucraina”… “Ma no stai tranquilla”. In un passaggio del suo discorso alla nazione, Putin ha parlato dell’ingresso nella Nato nel 2004 di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia come di un allargamento a est che – ha detto – “va letto come una minaccia perché le infrastrutture militari Nato sono sempre più vicine alla Russia e i loro missili possono colpire Mosca in 30 secondi”. “Ne è sicura, signora? Putin ha citato anche la Romania. È sicura che posso stare tranquilla? I miei figli lavorano in Germania, io gli ho detto di restare lì e non rientrare a casa“.

L’ho accarezzata, abbracciata e rassicurata. Poi sono andata alla mia scrivania e sono stata assalita da un brivido di freddo. Possiamo essere sicuri di qualcosa in questo momento? Anche svegliarsi con la guerra in casa non era uno scenario probabile fino a qualche giorno fa.

Ma il punto è che questa guerra non è iniziata il 24 febbraio 2022, questa guerra si combatte nell’indifferenza generale nel cuore dell’Europa dal 2014.

Io sono entrata nel Donbass occupato dai miliziani filorussi nel 2017. Ho visitato le autoproclamate Repubbliche indipendenti di Donetsk e Lugansk. Siamo entrati da Rostov. Da lì in pullman fino al confine ucraino. E dopo i controlli (dei russi) eccoci nel Donbass occupato.

Ricordo bene che la propaganda in atto era ben visibile: ovunque c’erano cartelloni evocativi che esaltavano l’esercito e il nuovo governo indipendentista.

Persino la nostra presenza sul territorio divenne una notizia: una troupe di un telegiornale russo ci accolse per farci delle immagini mentre andavamo a visitare la linea del fronte. Siamo stati anche a Spartak, abbiamo visitato il Villaggio Zaitsev, e poi fino al punto più vicino alla linea del fronte. Dalla trincea si vedeva la bandiera ucraina. Chi indossava la divisa diceva di sentirsi russo. Chi abitava nelle case distrutte sul confine era invece soprattutto logorato dalla guerra che li aveva resi ancora più poveri e affamati. Non faceva discorsi politici, o almeno non le persone che intervistammo noi. Poi c’erano gli abitanti di Donetsk e Lugansk. E qui la situazione era diversa. Lontano dalle bombe e dagli edifici distrutti sembrava la vita scorresse normalmente. I bar erano pieni fino a poco prima del coprifuoco. Su tutto regnava la calma, almeno apparente. Ma è normale immaginare che chi non simpatizzasse per i miliziani filorussi non volesse parlare apertamente con noi giornalisti.

Quell’anno mi accorsi dell’esistenza del Donbass però non per la guerra ma per un motivo preciso. Diversi giovani da alcuni paesi europei erano giunti lì per unirsi ai combattenti filorussi. Ho incontrato francesi per esempio, appartenenti in casa loro al partito comunista. Gli italiani invece che trovammo erano del versante politico opposto. Uno di loro, Andrea Palmeri, era un volto noto dell’estrema destra italiana, ex leader ultra lucchese. Ma non c’era da sorprendersi: il Donbass era il laboratorio della terza via di Dugin, l’ideolo di Putin, “né destra, né sinistra” solo sovranismo.

Una sera ad una cena a porte chiuse nel centro di Lugansk, con miliziani vari, oltre agli indipendentisti ucraini filo russi locali c’erano anche gli stranieri venuti da fuori per unirsi alla causa. C’era Palmeri – che nel 2021 è stato condannato dal tribunale di Genova a cinque anni di carcere perché ritenuto responsabile del reclutamento di mercenari filorussi nel Donbass, per lui è scattato anche il mandato di arresto europeo -, c’era Janus Putkonen, personaggio di spicco dell’estrema destra antisemita finlandese, c’era un giovane combattente italiano Alessandro Bertolini, appena ventenne di Rovereto.

E poi c’era un consigliere regionale piemontese di Fratelli d’Italia, uomo di Giorgia Meloni, al tavolo degli indipendentisti filorussi. Janus Putkonen quella sera gli consegnò a nome di tutti i presenti l’onorificenza militare.


Ora non so fino a che punto si può cancellare la memoria. Ma quell’anno era in atto alla luce del sole un’intesa, anche da parte della Lega, per invitare gli imprenditori del Nord Italia a delocalizzare le loro produzioni nelle regioni ucraine interessate dal conflitto in corso.

Era il 2017, poi siamo tornati ad occuparci di queste storie nel 2018. Questa volta a Mosca (i video dei nostri reportage: qui, qui e qui).

Alla parata del 9 maggio in memoria della capitolazione della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale, c’erano anche ex combattenti del Donbass. Alcuni di loro erano pronti a partire per la Siria. Nel loro quartier generale in città, i miliziani del Donbass alla parete avevano affisso la cartina con i confini della Russia imperiale, quella che Putin ha evocato giorni fa prima di sferrare l’attacco: “Fino a Kiev è tutto nostro territorio”, mi dissero.

Al cimitero per le celebrazioni dei volontari russi morti mentre combattevano per le autoproclamate Repubbliche di Donetsk e Lugansk c’era anche Alexandr Borodai, ex premier della repubblica popolare di Donetsk. Boroday all’epoca scriveva per Zavtra, rivista di estrema destra sulla quale scriveva anche Dugin.

Detto ciò, all’epoca queste persone se lo sognavano un discorso come quello fatto da Putin due giorni fa. Esistevano, ma erano ai margini, tenuti buoni ma non riconosciuti ufficialmente. Ora eccoci qua, ma non dobbiamo raccontarci che è accaduto tutto all’improvviso e tantomeno velocemente. La goccia di sangue costante versata ogni giorno da otto anni a questa parte ha generato la voragine a cui stiamo assistendo e ora speriamo di uscirne.

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