La faccia dello sfidante è coperta di sangue. Sgorga dappertutto. Dal sopracciglio, dallo zigomo, dalla palpebra sinistra. Solo che lui non sembra neanche rendersene conto. Cammina nervosamente lungo tutto il perimetro del ring. Ancora e ancora e ancora. Con un pugno alzato verso il cielo e le labbra divaricate da un ruggito. “No, no, no!”, urla. “Posso continuare”, ripete. Il problema è che l’arbitro Lou Moret la pensa in maniera molto differente. Al termine della sesta ripresa chiama il medico e gli chiede di controllare le condizioni di quell’omone di 31 anni. Il dottore obbedisce e comunica la sua diagnosi. Lo sfidante non è in grado di andare avanti, meglio chiuderla lì. L’arbitro annuisce e ferma l’incontro. L’inglese Lennox Lewis è ancora il campione dei pesi massimi della WBC. È una decisione che fa infuriare tutti.
Perché Vitali Klitschko è in vantaggio ai punti. E merita di vincere quel titolo. Dagli spalti dello Staples Center inizia a cadere giù una grandinata di fischi. E va avanti per un periodo che sembra interminabile. Sul ring Klitschko non si ferma un secondo. Continua la sua danza sgraziata. Continua a gridare. “Sono io il campione della gente”, dice. E l’arena di Los Angeles sembra dargli ragione. Gli ultimi dubbi vengono spazzati via quando Lewis si presenta davanti ai microfoni e dice: “Lui afferma che gli ho dato una testata? Ma per favore, aveva cinque ferite diverse in faccia. Gli ho procurato sessanta punti. Se vuole la rivincita mi facciano prima vedere i soldi”. Solo che poi quella rivincita l’inglese non la concederà mai. È in quel giorno che Vitali Klitschko diventa qualcosa in più di un semplice aspirante campione dei pesi massimi.
Ha già vinto il titolo della WBO, ma la sua parabola è destinata a portarlo molto più su. Anche perché il suo cognome ha una tendenza molto particolare a entrare nella storia. Il primo era stato suo padre, Vladimir Rodionovich Klitschko. A 39 anni aveva fatto carriera nell’Aeronautica Militare sovietica. Nell’aprile del 1986 la Patria aveva avuto bisogno di lui. Lo aveva convocato e gli aveva spiegato il suo nuovo incarico: avrebbe dovuto comandare le operazioni di pulizia dopo “l’incidente” di Chernobyl. È qualcosa di molto vicino al suicidio. Klitschko aveva ringraziato e aveva obbedito. Aveva fatto in modo che il disastro non si trasformasse in una catastrofe planetaria. E aveva ricevuto in cambio un tumore che lo avrebbe portato a spegnersi a 63 anni. L’altro appuntamento con la storia arriva esattamente 10 anni più tardi. Alle Olimpiadi di Atlanta del 1996. Un giorno il mondo intero ascolta ancora il cognome Klitschko. Un ragazzo di appena 20 anni ha vinto il titolo di campione dei Supermassimi. Si chiama Vladimir come suo padre ed è il fratello minore di Vitali, già piccolo per età, non per talento pugilistico.
Un giorno i due si incontrano con la madre e pronunciano un giuramento. Non si sarebbero mai affrontati. Perché nessuno avrebbe mai dovuto coprirsi di gloria con il sangue dell’altro. I due picchiano un avversario dopo l’altro, ma fuori dal ring si affidano alla testa. Guantoni spessi e cervello fino. Entrambi studiano fino alla laurea e fino al dottorato di ricerca. Entrambi si interessano di politica. Entrambi si prodigano in beneficienza. Entrambi giocano a scacchi. Vitali diventa amico di Vladimir Kramnik, ex campione mondiale. Ogni tanto si sfidano intorno a quella tavola quadrata. E Vitali perde sempre. “Qual è la differenza tra gli scacchi e il pugilato? Negli scacchi, nessuno è un esperto, ma tutti giocano – ama ripetere – Nel pugilato tutti sono esperti, ma nessuno combatte”. Ma i fratelli Klitschko sono soprattutto sicuri di essere stati investiti da una missione divina. Il loro futuro e quello dell’Ucraina devono essere sovrapponibili. E possibilmente gloriosi. Nel 2004 Vitali difende il titolo WBC contro Danny Williams, uno che aveva battuto Mike Tyson.
Klitschko lo picchia così forte che alla fine dell’incontro, all’ottavo round, deve andare all’ospedale per farsi controllare la mano. A Williams va peggio. I medici gli consigliano di fare una tac per capire se sia tutto a posto. È un successo che fa discutere. Soprattutto in termini politici. Perché arriva proprio in un momento di grande tensione fra Stati Uniti e Russia. Le accuse sono piuttosto serie. Alcuni “esperti del KGB” avrebbero avvelenato Yushenko, candidato alla presidenza dell’Ucraina che propugnava posizioni filo-occidentali e che caldeggiava un ingresso nella NATO, con della diossina. L’obiettivo non era ucciderlo, “ma renderlo invalido per impedirgli di partecipare alle elezioni”. Klitschko si presenta all’incontro con i calzoncini arancioni. Lo stesso colore del cappello di suo fratello Vladimir, che si siede al suo angolo. È un messaggio politico inequivocabile. Perché è colore del partito di Yushenko.
Dopo l’incontro Vitali si presenta davanti alle telecamere e dice: “Questo successo lo dedico soprattutto a chi crede ancora nella democrazia. Io lotto a fianco del mio popolo affinché questo concetto trionfi. Per me è molto importante l’esito delle prossime elezioni, quelle che verranno ripetute dopo i brogli che ci sono stati, e anch’io farò la mia parte e cercherò di dare il meglio di me stesso. Di sicuro il 26 prossimo sarò in Ucraina per votare Yushenko“. Prima di andare in ospedale Williams prova a minimizzare: “Klitschko è fortissimo, un ottimo pugile, però i colpi di Tyson sono più pesanti e fanno più male”. Difficile capire se stia scherzando. Perché in molti ammettono di avere qualche dubbio sulla questione. Vitali, però, non ha ancora finito. Prima di andarsene vuole aggiungere una cosa: “È stato il match più bello della mia carriera. Ma il miglior peso massimo in circolazione non sono io, né Ruiz campione della WBA e neppure Byrd, quello dell’IBF. Il migliore è mio fratello Vladimir, e per lui il titolo è solo questione di tempo”.
Qualcuno pensa che si tratti di una boutade. Invece è vero. Due anni più tardi il fratellino conquista il titolo mondiale dei pesi massimi. E se lo tiene stretto per nove anni, difendendolo con successo per 18 volte. Vladimir è un pugile capace di riempire un’intera epoca. Ogni suo incontro è una miscela esplosiva di sport e politica. Sventolano bandiere ucraina, volano frasi spot. Vitali e Vladimir non sono più atleti. Non sono neanche uomini. Ora sono simboli. Di un popolo, di una nazione, di una lotta. La loro boxe è cervellotica, non selvaggia. E proprio per questo non fa innamorare gli Stati Uniti. La fine del lunghissimo regno di Vladimir arriva in una sera del novembre 2015. Il campione poco incline agli show viene sfidato da Tyson Fury. E tutto diventa uno spettacolo grottesco. Durante la presentazione dell’incontro, a settembre, il britannico si presenta vestito da Batman. Poi fa entrare in sala anche Joker. Più avanspettacolo che spettacolo. Alla fine Fury si rivolge a Klitschko: “Liberare la boxe dalla tua noia è una missione personale. Mi sono addormentato ascoltandoti. Hai lo stesso carisma delle mie mutande. Sei una persona robotica e per niente emozionante da guardare. Non mi interessano le tue cinture, voglio solo romperti la faccia”.
Vladimir è imbarazzato. Sorride a disagio. Poi dice: “Dovresti cambiare mestiere. Conosco persone che lavorano nel circo, è molto difficile far ridere la gente”. I mesi successivi sono un disperato tentativo di non far entrare il match nel dimenticatoio. Tyson Fury si inventa di tutto. Una serenata a Klitschko. Un’altra canzone. Qualche video. Alla fine si combatte davvero. A Dusseldorf. Davanti a 55mila spettatori. Vladimir perde ai punti. È la fine di un regno sul quale sembrava non dover mai tramontare il sole. Poco dopo finisce anche la sua carriera. Ma i fratelli Klitschko hanno altri progetti. Vitali ha iniziato una nuova vita. In politica. Nel 2005 diventa consigliere di Yushenko, che era riuscito a diventare presidente. L’anno dopo si candida a sindaco di Kiev. Solo che il pugile finisce al tappeto. Non viene eletto nel 2006. Non viene eletto neanche nelle elezioni anticipate del 2008. Ma difficilmente Vitali si scoraggia. Ci riprova ancora. E stavolta conquista la vittoria. Nel 2014 diventa sindaco di Kiev. E viene rieletto per un secondo mandato.
Ora i due fratelli si ritrovano a combattere ancora insieme. Come hanno fatto per una vita intera. “Siamo pronti a prendere le armi”, ha detto qualche giorno fa Vitali, che quando indossava i guantoni era chiamato Ironfist, pungo di ferro. Vladimir, che si era guadagnato il nomignolo di Steelhammer, martello d’acciaio, ha invece firmato per i riservisti e combatte in prima linea. “Ci difenderemo fino all’ultima goccia di sangue – ha detto alla Bild – non sappiamo come vivremo domani. Ma la motivazione è fortissima Non ho mai visto una cosa del genere. Ne va della pace dell’Europa“. Il sindaco e il soldato semplice, come in una nemesi, in un rovesciamento della storia. Poco importa, perché per l’Ucraina i Klitschko hanno smesso da tempo di essere una semplice famiglia. Sono eroi, da quasi 40 anni.