Nel nome della conservazione, soldati e guardaparco commettono diffuse violazioni dei diritti umani
di Birendra Mahato*
Il Parco nazionale Chitwan, nelle pianure del Nepal settentrionale, è famoso per i suoi rinoceronti indiani e per altri animali selvatici che vivono nelle sue foreste e praterie tropicali. Confinante con l’India, un tempo era rinomato per la caccia grossa e come luogo d’intrattenimento per i Reali e importanti funzionari dell’Impero britannico. Abitato dagli indigeni Tharu, nei primi anni 60 l’eliminazione della malaria incoraggiò migrazioni di massa dalle colline che portarono al disboscamento e a un’ampia diminuzione della foresta. Per arginare la deforestazione e il declino nella fauna selvatica, nel XIX secolo il governo istituì la sua prima Area Protetta. I guardaparco demolirono così migliaia di case dei Tharu, costringendoli a lasciare la loro terra per fare posto al nuovo santuario dei rinoceronti.
Prima della bonifica dalla malaria e delle migrazioni, gli indigeni Tharu amministravano la foresta di Chitwan senza ricorrere a leggi o presidi militari. All’epoca, Chitwan era un mix di praterie e foreste lussureggianti perché la vita indigena è radicata nella conservazione della natura. Si stima che solo a Chitwan vi fossero più di 1000 rinoceronti e 300 tigri. Come molti popoli indigeni, i Tharu avevano un legame spirituale con la natura e la foresta. Onoravano i rinoceronti e le tigri ritenendoli componenti vitali per un ecosistema sano. Secondo gli anziani Tharu, la foresta era molto più grande quando erano i Tharu a gestirla. La fauna selvatica era parte della vita e il conflitto uomo-fauna era minimo.
Il Parco nazionale Chitwan, prima Area Protetta del Nepal, fu istituito secondo un’idea di conservazione strettamente protezionista, che considera l’uomo come un nemico della conservazione. La presenza umana nel parco fu pertanto limitata, e per impedire alla gente di accedervi, furono mobilitati i militari. Per garantire l’obiettivo, i funzionari del parco potevano ricorrere anche a misure estreme, come incendiare le case indigene e persino torturare gli abitanti a morte.
Il tempo e i dati, tuttavia, non forniscono alcuna evidenza dell’efficacia della militarizzazione ai fini della conservazione. In realtà, le foreste e l’habitat della fauna sono diminuiti. Secondo il censimento dei rinoceronti effettuato nel 2021, la loro popolazione totale a Chitwan è oggi di 752 esemplari: molti meno di quanti si stima ne esistessero prima della militarizzazione.
Declino della fauna a parte, la militarizzazione della conservazione ha generato conflitti tra il parco e le persone. I soldati hanno sanzionato i locali, hanno compiuto violenze sessuali e persino torturato a morte gli indigeni (si veda Kathmandu post, Naya Patrika, Peter Gill).
I popoli indigeni, che condividono con la foresta storia e cultura e che per generazioni ne hanno usato le risorse in modo sostenibile, ora non sentono più di appartenerle. L’istituzione del parco non incoraggia la partecipazione dei locali nell’amministrazione dell’ambiente aggravando ulteriormente il conflitto uomini-parco.
Nel nome della conservazione, soldati e guardaparco commettono diffuse violazioni dei diritti umani. E, a peggiorare la situazione, le grandi organizzazioni della conservazione si sono date da fare per nascondere questi avvenimenti. Raj Kumar Chepang, 24 anni, è stato picchiato a morte per aver raccolto lumache nel parco nazionale nel 2020. Shikharam Chaudhary è stato torturato e picchiato a morte dai ranger nel 2006. Ma il Wwf Nepal ha preteso che le accuse contro le guardie fossero lasciate cadere. Nel 2020, le autorità del parco e i militari hanno dato alle fiamme le case del popolo indigeno Chepang e ne hanno distrutto altre, lasciando dieci famiglie senza tetto durante la stagione dei monsoni.
L’impiego dei militari per la conservazione ha un costo sia in termini economici sia di conservazione. Il governo deve spendere milioni di dollari all’anno solo per far sorvegliare il parco dai militari. Questa militarizzazione esclude anche comunità indispensabili per una conservazione sostenibile.
Dopo intense ricerche sul campo, Charles M. Peter ha concluso che i popoli indigeni hanno una comprensione migliore dell’amministrazione della foresta e della conservazione. Hanno esperienze e conoscenze elaborate nel corso di migliaia di anni e trasmesse per generazioni che possono essere utilizzate per una gestione realmente sostenibile. Coinvolgendo le comunità locali si minimizza anche il costo della conservazione, si riducono i conflitti della popolazione con il parco e si restituisce ai locali il loro senso di appartenenza. Ai fini di una conservazione sostenibile, risultano dannose sia l’idea fortemente protezionista sia la militarizzazione della conservazione, e pertanto in futuro dovrebbero essere evitate.
*Direttore del Tharu Cultural Museum e del Research Center and Community Conservation Nepal
Foto in evidenza: una famiglia chepang davanti a quel che resta della sua casa bruciata dai funzionari del Parco Nazionale di Chitwan, durante la stagione dei monsoni. © Raju Chaudhary/Survival
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