Società

Il bonus psicologo non funzionerà se noi analisti non adegueremo i prezzi

La scelta del governo di erogare il cosiddetto “bonus psicologico” indica che il legislatore ha finalmente deciso di annoverare la salute mentale tra i “beni” da tutelare e preservare. Un’ottima notizia vista la trascuratezza storica dedicata a questo tema e considerato il biennio pandemico che ha visto l’acuirsi di tutte, o quasi, le forme di psicopatologia che noi clinici trattiamo. Questo ci porta direttamente alla vexata quaestio dei costi di una terapia, specie in un periodo di impoverimento economico generalizzato.

La clinica psicoanalitica insegna che un soggetto per mettersi in discussione deve, poco o tanto, pagare di tasca propria la seduta, risultando assai poco efficace un processo di messa in discussione individuale, duro e rigoroso come un analisi comporta, che abbia come sfondo un Altro, lo Stato, che eroga il pagamento delle sedute in toto. Ciò premesso ritengo l’iniziativa del Governo un’ottima cosa perché può costituire una spinta, uno sprone per tutti coloro i quali hanno, per questioni diverse, non ultima quella economica, procrastinato l’inizio di un percorso clinico. Tuttavia, per i suddetti motivi, il denaro dello Stato non può che costituire l’impulso iniziale, l’incentivo a una presa in carico duratura che deve chiamare in causa i professionisti della psiche nel praticare l’uso delle tariffe calmierate, vale a dire formulate sulle possibilità di ciascun paziente. Sì, perché al peggioramento generalizzato dell’equilibrio psicofisico di tanti, tantissimi cittadini, si è affiancato un sostanzioso impoverimento economico.

Questo lungo e opaco periodo caratterizzato dalla micidiale sovrapposizione tra una crisi economica senza eguali e la pandemia, con la conseguente volatilità del lavoro ormai divenuto un bene temporaneo, ha creato una condizione di riduzione dell’essere umano a individuo portatore di bisogni primari, costretto a mutilare i propri desideri e le proprie aspirazioni per campare. Ho visto negli ultimi anni molti uomini e donne assunti in grandi multinazionali immersi in una dimensione coercitiva del lavoro per il lavoro, del prodotto per il prodotto, incatenati a una condizione durissima e totalizzante che si guardano bene dal mettere in discussione, pena la strada, la fame, la fine delle rate, della casa e dell’abbigliamento del bambino. No ferie, no pausa bagno, stipendi ridotti all’osso, delocalizzazione come arma per irretire ogni possibile velleità di insubordinazione. Dopo aver accettato, per necessità, la garanzia capestro che questi neo datori di lavoro globalizzati forniscono, gli individui iniziano a pensare a quale forma dare alla loro vita. Avere uno o più figli, programmare l’acquisto di una casa, sognare un domani nel quale si possa dare respiro ai propri desideri profondi. E a quel punto, scoprono che non è possibile.

Non è possibile anteporre un desiderio proprio al fine ultimo dell’ingranaggio, che ti caccia se osi restare incinta, che ti rende difficile urinare, che tiene i tuoi tempi registrati in un aggeggio dal quale non puoi separarti. Molti pazienti si domandano, in un momento critico della loro esistenza, ma cosa sono io? Cosa ci faccio qua dentro? Io voglio altro, desidero altro. Ma non posso andarmene, perché di mezzo ci sono le rate dell’auto, della casa. Il soggetto dunque abdica al proprio desiderare, ai propri sogni, occupando una posizione di scarto, la sola utile a garantirgli il cibo. La nevrosi deflagra quando il soggetto impatta contro un’evidenza: mangiare è il prezzo della rinuncia alla vita desiderante. Questa amara constatazione sancisce l’ingresso in una dimensione di sofferenza psichica. Sogni spezzati, progetti procrastinati, la realizzazione di sé rimandata sine die.

La salute mentale, categoria onnicomprensiva che viene spesa mediaticamente con tanta disinvoltura, contiene le nevrosi, le cadute melanconiche, le angosce dei nuovi precari in difficoltà: insegnanti delocalizzati, operai appiedati, quadri cassintegrati, professionisti de-mansionati e costretti ad accettare corposi tagli al salario per continuare a lavorare, ristoratori che chiudono, architetti espulsi dal mercato, giovani intrappolati nella morsa del binomio scuola-lavoro. Tutto ciò ha avuto ripercussioni anche nella modulazione d’ingresso dei pazienti nello studio di un analista, portando molti a chiedere preventivamente al telefono: “Quanto costa una seduta? Me lo può dire prima?”. E noi, su questa richiesta, dobbiamo farci trovare pronti, disposti a contrattare, lontani da rigidità fuori tempo.

L’assunto fondante di un rapporto analitico si basa su un principio: il paziente non paga l’analista, ma paga la sua analisi. Tale assunto mantiene intatto il suo valore di sprone alla rettifica soggettiva ed è uno dei pilastri dell’apparato analitico, ma non può non essere adattato alle reali contingenze economiche, al potere di acquisto effettivo, come non può prescindere dal generale impoverimento del cittadino.

Un tempo, in un’equipe clinica, mi venne detto con altezzoso stupore: “ma lei fa sedute e meno di 130 euro!?”. Ho lasciato felicemente quel mondo alle mie spalle, lì dove deve stare, vale a dire ai margini della città viva, pulsante e desiderante, chiuso nelle sue cripte prive di aria e maleodoranti. Nelle tre regioni nelle quali lavoro ho constatato che continuare a vivere in maniera avulsa dalla città, ignorandone le peripezie, imponendo coattivamente cifre elevatissime, non ottiene l’effetto di sostenere il desiderio di chi domanda un aiuto terapeutico, quanto lo introduce a una dimensione mortificante di sbarramento di una strada per la quale, magari, è assolutamente predisposto in termini di saperci fare con l’inconscio.

Dunque ben venga il bonus dello Stato, a patto che costituisca uno sprone alla ricerca del proprio benessere, esaurito il quale ci trovi disposti a trattare il costo delle sedute in virtù del fatto che molti pazienti che oggi bussano ai nostri studi hanno poco denaro da spendere, ma un interiorità a soqquadro da risistemare.