La settimana scorsa, centinaia di persone che avevano perso almeno un parente nel genocidio compiuto dallo Stato islamico nel 2014 contro la comunità yazida si sono raccolte nel villaggio di Hardan, per accompagnare con la preghiera la ripresa delle esumazioni da sei fosse comuni. Le operazioni erano iniziate alla fine del 2019, ma erano state presto interrotte a causa della pandemia.

La zona è sul lato nord dei monti del Sinjar, nella provincia irachena di Ninive. Qui, nell’estate di otto anni fa, lo Stato islamico fece terra bruciata, e non è un modo di dire: vennero uccisi almeno 5000 uomini adulti e adolescenti e almeno 7000 donne, ragazze e bambine furono trasferite nelle zone dell’Iraq e della Siria allora conquistate dallo Stato islamico e ridotte in schiavitù sessuale.

Il lascito del genocidio degli yazidi è una ferita ancora aperta. Le persone sopravvissute, soprattutto le donne, patiscono ancora le conseguenze fisiche e psicologiche della loro compravendita e della violenza sessuale di massa. A distanza di quasi otto anni, mancano all’appello oltre 2700 yazidi. Nel villaggio di Hardan furono rapite 362 persone, 132 delle quali risultano ancora scomparse.

Nelle sei fosse comuni di Hardan sono stati individuati 131 corpi, o meglio ciò che è rimasto di loro: questi resti verranno portati a Baghdad e abbinati, grazie alle tecniche del Dna, alle famiglie di appartenenza per una sepoltura degna.

Nella zona intorno ai monti del Sinjar sono state localizzate 82 fosse comuni. Le esumazioni sono condotte dal governo iracheno, in coordinamento col Governo regionale curdo e sotto la supervisione dell’Unitad, il Team investigativo delle Nazioni Unite per l’accertamento delle responsabilità dei crimini commessi dallo Stato islamico.

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