Più la situazione in Ucraina si fa drammatica, più il mercato dei titoli di Stato europei si tranquillizza e i rendimenti scendono. Cinismo degli investitori o, per dirla in termini più diplomatici, Realpolitik. L’arcano è presto spiegato: l’escalation militare fa prevedere che decisori politici e banche centrali si guarderanno bene dal ridurre nel prossimo futuro gli attuali sostegni alla crescita. Con la rigorosa Germania che – pur essendo sull’orlo della recessione – stanzia 100 miliardi in spese militari e l’intera Europa alle prese con le inevitabili conseguenze delle sanzioni alla Russia, il rialzo dei tassi di interesse che appariva dietro l’angolo per tenere sotto controllo l’inflazione è dato per rinviato. E il coro bipartisan che dall’Italia chiede di prolungare la sospensione del Patto di stabilità decisa nel 2020 causa Covid, rinviando dunque anche la discussione sulla sua riforma, potrebbe avere molte chance di essere ascoltato.
I primi indizi sul probabile cambio di rotta della Bce risalgono a una settimana fa, prima ancora dell’invasione, quando il governatore della Banque du France Francois Villeroy de Galhau in un discorso riportato da Bloomberg in vista dell’Eurotower in calendario per il 10 marzo ha auspicato che si “prenda tempo” per valutare “le conseguenze indirette” degli eventi geopolitici e “evitare errori“. Lunedì, con le truppe russe sul suolo ucraino, i segnali sono diventati chiari: il membro italiano del board Fabio Panetta ha chiesto che si decida “con cautela” perché “il mondo è divenuto più cupo e i nostri passi dovrebbero essere più piccoli”. E anche gli Stati tradizionalmente “falchi” ma con banche esposte nei confronti della Russia inevitabilmente spingono per procedere con i piedi di piombo. Risultato: da martedì i mercati hanno smesso di prezzare l’aumento dei tassi di interesse di 25 punti base già a dicembre. Si sono convinti che non se ne parla prima del 2023. A tutto vantaggio dei bilanci dei Paesi più indebitati, a partire dall’Italia.
L’altro fronte riguarda la politica economica. L’11 marzo è in agenda un Consiglio Ue durante il quale i leader avrebbero dovuto iniziare a discutere i dettagli della prevista riforma del Patto, su cui è attesa in primavera anche la proposta della Commissione. Ma lo scenario nel frattempo è cambiato. A seconda di come evolve la crisi, i prezzi energetici potrebbero essere soggetti a ulteriori fiammate mettendo ancora più in difficoltà famiglie e imprese, spingendo l’inflazione a nuovi rialzi e riducendo per questa via le prospettive di crescita di Paesi che in molti casi non hanno ancora recuperato i livelli pre pandemici. Non è certo il momento per dare priorità ad aggiustamenti delle finanze pubbliche. La risoluzione bipartisan votata martedì dal Parlamento chiede non a caso “la ulteriore sospensione del Patto di stabilità e la istituzione di un fondo europeo compensativo per gli Stati maggiormente penalizzati dalle sanzioni”. Secondo Carlo Altomonte, associato di Politica economica europea alla Bocconi, “è assai probabile che la revisione del Patto slitterà e la clausola resterà aperta”. E il governo italiano, se la riunione del direttivo Bce e il Consiglio Ue andranno come da previsioni, si muoverà di conseguenza.
“Il Documento di economia e finanza (atteso entro metà aprile ndr) avrebbe dovuto prevedere una riduzione del debito/pil di diversi punti grazie alla forte crescita del 2021 e alla discesa dei tassi”, ricorda il docente. “Ma se invece rinunciassimo a un po’ di aggiustamento, con il consenso dell’Ue, potremmo recuperare 50-60 miliardi da utilizzare per finanziare eventuali scompensi legati alla situazione geopolitica. Per l’Italia è cruciale non perdere l’abbrivio sul Pnrr, perché dalla sua attuazione dipende mezzo punto di pil in più all’anno per sempre. E questo da solo basta per stabilizzare il nostro debito. Meglio allora usare qualche decina di miliardi l’anno prossimo per garantirne l’implementazione nonostante l’aumento dei prezzi che ritrovarci in futuro a dover fare sforzi ben più dolorosi”.