Attal, anche sceneggiatore con script tratto dall’omonimo libro di Karine Tuil, cementifica il cuore del film sull’ambiguità dei comportamenti dei protagonisti e suddivide l'opera in ampi e copiosi capitoli: Lui, Lei e infine Il processo
Una violenza sessuale possibile. Due versioni del fatto opposte. Una “zona grigia” che non si riesce a decifrare. L’accusa di Yvan Attal, in francese titolo molto più pertinente – Les choses humaines -, è uno di quei film in cui conta più il dubbio delle certezze, in cui si sprigionano più scintille etiche elucubranti che la bandierina srotolata della giustizia finale. Insomma, la notizia, che all’ultimo Festival di Venezia avevamo ingiustamente tralasciato (non si può vedere tutto nella vita, e nei festival), è che uno stupro (presunto) all’epoca del #MeToo non sembra assumere i toni della crociata moralista.
Prima che si apra il cielo, Attal è pure uomo, spieghiamo che si tratta della storia ambientata ai giorni nostri di Alex (Ben Attal, figlio del regista e dalla coprotagonista Charlotte Gainsbourg), un 22enne piuttosto sbarazzino pronto per l’università di Stanford, tornato a Parigi in attesa che papà (Pierre Arditi), potente e notissimo presentatore tv, riceva la legion d’onore dal presidente della repubblica. La madre (Gainsbourg), signora alto borghese separata, lo attende intanto a casa sua per cena con il nuovo compagno (Matthieu Kassovitz) e Mila, la figlia di lui 17enne (eccellente Suzanne Jouannet).
Tempo di qualche chiacchiera sul futuro di Alex e una sua svelta melodia al pianoforte di cui è sopraffino esecutore, e mamma invita il figliolo di corsa verso una festa con amici a portare con sé Mila. Il risveglio di tutti sarà con la polizia che suona alla porta di Alex per arrestarlo: Mila piangente e sconvolta lo ha accusato di stupro. Suddiviso in ampi e copiosi capitoli – Lui, Lei e infine Il processo –. L’accusa è nella prima ora un tourbillon di sentimenti accennati e sessualità manifesta, di incroci familiari maturi, di false piste narrative avvolti nell’obiettivo di una macchina da presa in movimento, proprio a tracciare e fendere linee nello spazio inquadrato; poi diventa un più tradizionale courtroom drama dove l’improvvisa e percepibile fissità della mdp spinge l’attenzione verso la parola dei protagonisti (testimoni, vittima, accusato, avvocati, giurati).
Non siamo dalle parti di un banale niente è come sembra, perché non c’è un vero e proprio mistero da svelare (non fatevi ingannare dal filmino amatoriale in 4:3 che sbuca tra una testimonianza e l’altra), nemmeno la classica divaricazione sul fatto che la vittima fosse consenziente (per la cronaca: non lo era per nulla). Semmai Attal, anche sceneggiatore con script tratto dall’omonimo libro di Karine Tuil, cementifica il cuore del film sull’ambiguità dei comportamenti di entrambi i protagonisti, di un agire che viene ricostruito durante il dibattimento in aula nella frammentazione contraddittoria, piccante, disinvolta, tramite tweet, foto pubblicate online, chat sullo smartphone. Fino ad arrivare a quello che l’avvocato difensore nella sua arringa definisce “le due percezioni della stessa scena” o anche di una stessa espressione linguistica. Ad esempio una porcheriola che Alex suggerisce durante l’amplesso con un’altra focosa amante è segno erotico massimo, ma con Mila è un’offesa esemplare sintomo di violenza impositiva. L’atteggiamento sessuale predatorio maschile (in famiglia Alex sembra avere un esempio non proprio encomiabile nel padre donnaiolo, ricambiato comunque con piacere) non finisce certo sotto il tappeto, anzi. Eppure dall’oscillamento percettivo che il film propone non si scappa, e nemmeno vi si può rifugiare. La sentenza della corte arriva quando tutto è stato detto e i titoli di coda stanno già salendo. Per questo il dubbio rimane sottopelle lasciando aperta una discussione che solo due anni fa sarebbe diventata epocale.