Lo ha deciso il Tribunale vaticano presieduto da Giuseppe Pignatone. nel corso della nona udienza del procedimento. Il prossimo 17 marzo sarà interrogato il cardinale Becciu, primo dei dieci imputati
Il processo penale sugli investimenti finanziari della Segreteria di Stato si farà. Lo ha deciso il Tribunale vaticano presieduto da Giuseppe Pignatone che, nella nona udienza del procedimento destinata alla risposta sulle questioni preliminari, ha letto una lunga ordinanza con la quale ha respinto tutte le eccezioni presentate dalle difese dei dieci imputati. Eccezioni che se fossero state accettate, in tutto o in parte, avrebbero minato la prosecuzione del procedimento, dato che molte di esse avevano come oggetto la nullità del processo per deposito parziale degli atti. Per il Tribunale vaticano l’operato dei promotori di giustizia della Santa Sede è conforme alle regole vigenti nello Stato più piccolo del mondo, per cui ora, dopo sette mesi dalla prima udienza, si entrerà nel vivo del dibattimento. Anche se le difese, dopo la lettura del dispositivo, si sono riservate di impugnare l’ordinanza. Nella prossima udienza, il 17 marzo, sarà interrogato il primo dei dieci imputati, il cardinale Angelo Becciu, limitatamente all’accusa sui fondi inviati, quando era sostituto della Segreteria di Stato, alla diocesi di Ozieri e alla Cooperativa Spes, gestita dalla Caritas e legalmente rappresentata dal fratello del porporato, Antonino. “Finalmente – ha commentato in aula il cardinale Becciu – inizia il dibattimento. Era da sette mesi che aspettavo e adesso posso parlare. Sono contento. Sono pronto a rispondere su tutto”.
Il porporato si è detto “fiero e orgoglioso di aver trovato fondi per sostenere questa cooperativa che dà lavoro a 60 ragazzi e ragazze che, come li chiama il Papa, sono scarti della società: ex drogati, ex carcerati e ragazzi con problemi di salute. Anche durante la pandemia non è venuta meno l’occupazione, anzi, è aumentata. È una cooperativa, braccio destro della Caritas di Ozieri, impegnata nel sociale. L’accusa che mi è stata fatta è che io, inviando soldi alla Caritas di Ozieri, ho voluto favorire i miei familiari. Questa è un’accusa dalla quale mi difenderò in Tribunale e che ho sempre respinto. E la respingo con la stessa documentazione dei magistrati che è contenuta nella citazione a giudizio: loro hanno accertato che sono stati inviati alla Caritas nel 2013 100mila euro, nel 2015 25mila euro e nel 2018 100mila euro. Accertano gli stessi che i 100mila euro del 2018 sono fermi, bloccati, sono ancora nel conto della Caritas perché il vescovo deve iniziare a breve, su un terreno donato dal comune di Ozieri, la costruzione di una casa di servizio per i poveri. I 25mila euro sono stati utilizzati per comprare un macchinario per il panificio. Questi 100mila e 25mila euro erano dell’Obolo di San Pietro. I 100mila euro del 2013, ammettono loro stessi, erano un prestito dello Ior che io avevo chiesto e che ho restituito. Li avevo inviati in attesa che arrivassero i finanziamenti della Cei. La cooperativa mi ha già restituito 50mila euro e 50mila li ho lasciati in donazione per aiutare le loro opere socio caritative. Quindi alla fine sono 125mila euro che sono arrivati dall’Obolo e che sono lì. Quali soldi sono andati ai miei familiari?”.
In udienze successive, ha precisato Pignatone, il porporato sarà interrogato sulle altre due vicende che lo vedono coinvolto, ovvero l’acquisto del palazzo di Londra (le cui perdite, secondo i pm, ammontano a 217 milioni di euro) e i rapporti con la manager Cecilia Marogna. Quest’ultima, come ha spiegato in aula il suo legale, ha invocato il vincolo di segretezza appellandosi alla Segreteria di Stato, all’Italia e alla Nato. “La Nato – ha risposto Pignatone – non è sicuramente il mio interlocutore e in questo momento mi pare in altre faccende affaccendata”. “Le difese – si legge nell’ordinanza del Tribunale – hanno fatto molte volte riferimento ad asserite violazioni della Costituzione italiana e della Convenzioni internazionali, in particolare la Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Più specificatamente, è stato frequente il richiamo ad (asserite) violazioni dei principi del giusto processo. In proposito si deve però innanzitutto rilevare dal punto di vista formale che nello Stato della Città del Vaticano vige il sistema delle fonti indicato nella legge sulle fonti del 2008; in questo quadro non possono trovare applicazione né la legge fondamentale di un altro Stato, qual è la Costituzione della Repubblica Italiana, né una Convenzione alla quale il Vaticano non ha aderito. Si deve poi aggiungere, dal punto di vista sostanziale, che l’ordinamento vaticano ha recepito questi principi fondamentali con propri provvedimenti legislativi”. In particolare per quanto riguarda “l’inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento” e “i principi del giusto processo e della presunzione di innocenza”.
Per i giudici, infatti, “è di tutta evidenza che questi principi sono pienamente rispettati nell’ordinamento penale vaticano”. E ancora: “Del tutto irrilevanti restano pertanto le eccezioni delle difese fondate sulla asserita violazione dei principi del giusto processo individuati mediante il richiamo di singole e specifiche disposizioni della Costituzione italiana (se non addirittura del codice di rito italiano) e della Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Allo stesso modo, del tutto ingiustificate e fuori luogo sono le definizioni di ‘processo speciale’ e ‘tribunale speciale’ usate da qualche difensore, come pure le affermazioni sull’asserita mancanza di indipendenza dei giudici vaticani contenute nelle memorie di alcuni difensori, spesso fondate su una inammissibile interpretazione della normativa delle convenzioni internazionali e della Costituzione italiana e su una lettura parziale ed erronea di quella vaticana”.