Un quesito dal “carattere manipolativo e creativo, e non meramente abrogativo“, formulato con “ambiguità” e “scarsa chiarezza” nonché comunque inidoneo” a conseguire il fine di dare vita a un’autonoma azione risarcitoria, direttamente esperibile verso il magistrato”. Sono i motivi per cui la Corte costituzionale il 16 febbraio scorso ha bocciato il referendum sulla responsabilità civile diretta di giudici e pubblici ministeri, l’unico dei sei quesiti sulla “giustizia giusta” promossi da Lega e Partito radicale a non aver superato il vaglio di ammissibilità. Nella sentenza 49 del 2022 depositata il 2 marzo – redattore Augusto Barbera – la Consulta sostiene che “l’introduzione dell’azione civile diretta nei confronti del magistrato senza alcun filtro, in conseguenza di un impiego della cosiddetta tecnica del ritaglio (cioè l’abrogazione “chirurgica” di pezzi di norme tramite referendum, ndr), volgerebbe quest’ultima dalla finalità che le è propria a quella che è invece preclusa a un istituto meramente abrogativo, ossia alla finalità di introdurre una disciplina giuridica nuova, mai voluta dal legislatore, e perciò frutto di una manipolazione creativa”. Al momento infatti l’azione di responsabilità (in caso di dolo e colpa grave) è indiretta: si può esperire contro lo Stato, che a propria volta, in casi ancora più limitati, si può rivalere sul magistrato.
La Corte ricorda la propria passata giurisprudenza secondo cui non è consentita “la manipolazione della struttura linguistica della disposizione, ove a seguito di essa prenda vita un assetto normativo sostanzialmente nuovo”, come sarebbe la creazione della possibilità in capo a ogni cittadino di trascinare il proprio giudice in un’aula di tribunale. In quel caso, infatti, “si realizzerebbe uno stravolgimento della natura e della funzione propria del referendum abrogativo”. “L’effetto abrogativo dell’istituto referendario – spiegano i giudici – può portare (come ha più volte portato nella storia repubblicana) anche a importanti sviluppi normativi, ma solo ove ciò derivi dalla riespansione di principi generali dell’ordinamento o di principi già contenuti nei testi sottoposti ad abrogazione parziale”, un caso che non risponde alla fattispecie sotto esame. Infatti “la responsabilità civile del magistrato, in quanto necessariamente subordinata alla introduzione legislativa di condizioni e limiti del tutto peculiari, non si presta alla piana applicazione della normativa comune vigente in tema di responsabilità dei funzionari dello Stato”.
“Altre ragioni di inammissibilità del quesito”, si legge al punto 9 del provvedimento, “concernono la sua scarsa chiarezza e ambiguità, e comunque la sua inidoneità a conseguire il fine (pur creativo, e, come si è detto, per tale motivo in sé causa di inammissibilità) di dare vita ad un’autonoma azione risarcitoria”. Azione che peraltro non è prevista dalla legge in vigore, e di cui “la normativa di risulta non è in grado di definire forme, termini e condizioni con il tasso di determinatezza necessario a ritenere che abbia preso forma nell’ordinamento una, pur nuova, azione processuale”. Va aggiunto, prosegue in punto 9.2, che da una vittoria del sì deriverebbe, “in modo del tutto illogico che il magistrato, in caso di azione diretta, sarebbe responsabile in un ventaglio di ipotesi più ampio di quello che si sarebbe avuto nel caso di azione contro lo Stato e successiva rivalsa di quest’ultimo. La rivalsa, infatti, è limitata ai soli casi, oltre che di dolo, di “negligenza inescusabile” del magistrato, mentre “il quesito referendario intende sopprimere l’espressione “contro lo Stato” all’art. 2, comma 1, della menzionata legge 117 del 1988″, che invece “definisce le ipotesi di responsabilità civile per fatti commessi nell’esercizio delle funzioni demandate ai magistrati”, utilizzando l’espressione “con dolo o colpa grave“.