Il calcio è cambiato profondamente in Italia. È cambiato quando un elemento prima caratterizzante è venuto meno: la strada. Già, perché chi ha avuto la fortuna di essere bimbo almeno fino alla fine degli anni ’90 lo sa: la scuola calcio va bene, ma non è divertente quanto giocare per strada. E per strada le regole sono diverse: puoi prenderne 10 e farne uno, ma alla fine vince sempre chi fa l’ultimo, e quindi più che marcare e tenere la posizione conta divertirsi, conta la giocata. Oggi è praticamente impossibile vedere un giocatore che salta l’uomo, prima ne avevi almeno cinque: i due terzini, in particolare il sinistro, le due ali, in particolare la destra, e poi il dieci. Già: c’è stato un periodo in cui anche chi non era “dieci” fino in fondo per qualità, piedi e spunti era un dieci aggiunto. E se magari c’era sovrabbondanza di roba pregiata, da Baggio a Zola a Del Piero poi c’erano i “dieci di provincia”.
E se oggi basta un tiro nel sette e un bel cross per finire in Nazionale, venir comprato da una grande e diventare milionario a 20 anni, all’epoca era possibile, anzi, molto probabile, restare a vita un “dieci” di provincia. Finendo comunque nel cuore di tifosi e appassionati. Ce ne sono tanti, che racconteremo (o abbiamo già raccontato) tra le righe di Ti Ricordi: tra questi c’è senz’altro Marco Sgrò. Originario di Sermoneta, in provincia di Latina, brevilineo, veloce e coi piedi buoni lo nota subito il Genoa, che a fine Anni ottanta lo manda a giocare, come si faceva coi giovani a quei tempi. Prima Jesi, dove fa 7 gol in 34 partite, poi a Siena, dove gioca di più ma segna solo un gol.
Perché quando sei bravo, ma di provincia, cominciano gli equivoci: la storia dei dieci è bella, ma tormentata già ad alti livelli, figurarsi nelle basse. È un dieci? Meglio all’ala, magari pure mediano. E qualche volta Sgrò ha fatto anche il centrale di difesa: che la testa spesso conta più dei piedi buoni e i polmoni devi tenerli allenati comunque che ai dieci di provincia tocca correre.
Col Fiorenzuola sboccia, andando al centro del campo e di fatto iscrivendosi alla facoltà di architettura, con la laurea che sarebbe arrivata nella tappa più importante della sua carriera, all’Atalanta.
Prima gioca solo 12 partite, con la Dea che retrocede, lui va all’Ancona in prestito ma torna e diventa un pezzo pregiato della scuderia orobica. Tanto pregiato che lo vorrebbe Capello al Milan (anche in virtù di un gol subito proprio da Sgrò, tra i più belli della sua carriera), ma non se ne fa nulla. E alla fine a Marco sta bene: gli piace giocare all’Atalanta, soprattutto quando in panca arriva Mondonico e mette assieme quella squadra pazzesca con Pippo Inzaghi, Gigi Lentini, oltre a uno dei dieci più puri della storia del calcio italiano, che è Mimmo Morfeo, e appunto Marco Sgrò.
Una squadra in grado di arrivare decima, di segnare 44 gol (il Parma, secondo in classifica, ne segnò 41), tre dei quali di Sgrò. Uno lo mette a segno 25 anni fa a Perugia, e ne fa segnare molti di più a Pippo Inzaghi che naturalmente cannibalizza l’attacco atalantino facendone 24 e vincendo la classifica marcatori. E resta, Sgrò, giocando pure meglio, quando Inzaghi, Lentini e Morfeo vanno via e Nicola Caccia e Cristiano Lucarelli non rendono come loro, e la Dea retrocede. Innamorato dell’Atalanta, Sgrò resterebbe anche in B ma ha addosso gli occhi delle grandi. Inzaghi vorrebbe portarlo alla Juventus, ma alla fine la spunta la Sampdoria che offre molti soldi, tanti da spingere lo stesso presidente Ruggieri a convincere Sgrò a farsi cedere. Ma alla Samp gira tutto male e retrocede, da lì Sgrò passa prima alla Ternana, poi al Monza, quindi continua a divertirsi fino ai 40 anni sui campi di provincia. Oggi allena a Legnano, in D, con buone ambizioni di crescita, e ha già alle spalle qualche promozione. Perché alla fine quando sei un dieci di provincia devi sempre sudartela. Per Sgrò non è mai stato un problema.