Il fallimento politico dei negoziati ci mette di fronte ad altri giorni di guerra. Putin ha infine dichiarato, secondo quanto riportato dal presidente francese Macron, che il suo obiettivo è ottenere il controllo territoriale dell’intera Ucraina. Di fronte a questo, quale che sia il nostro giudizio sul governo che gli ucraini hanno eletto, occorre sostenere la resistenza di una nazione fisicamente aggredita, sia essa non violenta o armata.
Esistono esempi di resistenze pacifiche efficaci, ma lunghe e comunque terribili, come quella cecoslovacca all’Urss; tuttavia non credo ci si possa porre al di sopra di una popolazione sotto le bombe ed esprimersi al suo posto sui mezzi che deve usare. In Italia lo avremmo accettato? Lo accetteremmo? Ogni resistenza è tenuta a rispettare, come ogni belligerante, gli accordi di Ginevra: non coinvolgere i civili, rispettare i prigionieri, non commettere crimini di guerra; ma non vi sono ragioni in coscienza né nella legge internazionale per negare sostegno alla resistenza degli ucraini.
Esistono due controindicazioni. La prima è che se questo sostegno comprende l’afflusso di armi e combattenti l’Europa che ora conosce la guerra conoscerà, per la prima volta, anche le sue conseguenze nel mondo contemporaneo: la proliferazione di gruppi politici o economici armati che contenderanno sul territorio e via via in territori limitrofi – per un tempo imprecisato – il monopolio del controllo della violenza agli stati e alle organizzazioni internazionali. I popoli del Medio Oriente e dell’Africa conoscono a proprie spese, da lungo tempo, questo scenario. La guerra si avvicina a noi: dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Siria e la Libia all’Ucraina, procede verso ovest piuttosto rapidamente, con tutto il suo portato di destrutturazione umana e politica e con l’opzione nucleare divenuta in poche ore qualcosa di cui si discute.
La seconda controindicazione è che il diritto supremo di una popolazione a proteggere le sue aspirazioni nazionali non è supremo fino in fondo, dopo la Shoah. Il principio di autodeterminazione non può costituire una deroga al principio, esistenziale per l’umanità e per l’Europa, del bando di ogni organizzazione che intenda riproporre il progetto nazista o fascista. Il mondo e l’Europa non se lo possono permettere, benché – come un secolo fa – le classi dirigenti liberali (o autocratiche) non abbiano lo spessore politico per rendersene conto.
In Ucraina esistono molteplici gruppi armati fascisti o neonazisti, divenuti attori di primo piano nel 2014 con le due rivolte nel paese: quella filo-Ue a Kiev e quella filo-russa nel Donbass. Da una parte e dall’altra agiscono da allora gruppi armati di estrema destra, anche integrati nelle forze armate ufficiali. È stato detto che tali gruppi alle elezioni non hanno mai superato il due per cento, ed è vero; ma sarebbe ingenuo (o in malafede) pensare che per dei gruppi armati il consenso elettorale sia l’unico viatico verso il potere. L’influenza a Kiev di gruppi come “Pravyi Sektor” o il “battaglione Azov”, e a Donesk di “Unità nazionale russa” o della “Legione di Santo Stefano” è certificata dal loro aperto riconoscimento istituzionale e militare da parte dei rispettivi governi di fatto o di diritto.
Ci troviamo di fronte a un dilemma. Tanto le aspirazioni del Donbass all’autonomia o all’indipendenza quanto la necessità di difendere l’Ucraina dall’invasione russa sono politicamente legittime. Una parte delle forze militari in campo nel Donbass e a Kiev, tuttavia, non può essere legittimata per ragioni irrinunciabili e a loro volta politiche, legate alla salvezza stessa dell’Europa. La situazione, anche se ci può sorprendere, non è diversa da quella che si è creata in Iraq quasi vent’anni fa. L’invasione angloamericana, condotta senza giustificazione giuridica di sorta, legittimò l’insurrezione armata; tuttavia il proliferare di gruppi armati in grado di imporre la loro egemonia ideologica alla resistenza (in primis Al-Qaeda, poi divenuta Daesh) sono stati causa dei massimi problemi dell’Iraq durante e dopo l’occupazione, per poi sobillare guerre e crimini contro l’umanità anche nei paesi circostanti.
Come conciliare, allora, il principio di autodeterminazione e resistenza con quello della libertà politica? Soltanto coloro che ritengono entrambi questi principi non negoziabili possono costruire, oggi, consessi politici volti a migliorare la situazione europea o mediorientale. Dover partire dalla soluzione di un dilemma è forse un paradosso per una mobilitazione politica e teorica da costruire – o forse no; ma porsi le domande giuste è un punto di partenza avanzato, poiché sfronda le nostre menti da tante sciocchezze e allontana le cattive compagnie.