Dalla Madonna del Cardellino di Raffaello a La Scapigliata di Leonardo, le riproduzioni su schermo alla Galleria Unit fino al 19 marzo. E se un acquirente acquista sulla blockchain di Ethereum metà della somma va al museo (a cui rimangono i diritti delle immagini). Le contraddizioni del ministero: "arte per tutti" o opere alla portata di pochissimi?
Una volta i musei – quelli più grandi, ma soprattutto quelli più autorevoli – erano anche dei centri di studio e di formazione per le future generazioni di studiosi delle arti. La riforma Franceschini del 2014 ha “spacchettato” i poli museali disaggregando una formula che permetteva un’esistenza dignitosa anche ai musei più piccoli, ma pur sempre parte di un polo. Tutto è cambiato e al primo posto, invece che la conservazione, il restauro, lo studio, si predilige la valorizzazione, il numero degli ingressi nei musei e i like sui social, i selfie e gli incassi a sei zeri.
È proprio in questo solco – che ha a che fare più con l’economia che con la cultura – che si inserisce l’iniziativa di tre musei e di una biblioteca che venderanno repliche Nft di famose opere d’arte, capolavori del calibro della Madonna del cardellino di Raffaello o de La scapigliata di Leonardo da Vinci. A proporre la vendita di queste copie digitali sarà la Galleria Unit di Londra che fino al 19 marzo ha messo in mostra sei dipinti digitalizzati su schermi delle stesse dimensioni, all’interno di cornici praticamente indistinguibili da quelle delle opere originali.
Le repliche sono state prodotte dall’azienda milanese Cinello (con sedi anche a Firenze e a Copenaghen), che ha brevettato la tecnologia per realizzare queste opere d’arte digitali crittografate, note come Daw, ovvero Digital Art Work, come quella del Tondo Doni della Galleria degli Uffizi – unica pittura certa di Michelangelo Buonarroti – che un anno fa fu venduta a un collezionista romano per 240mila euro.
Ma cos’è una Daw realmente? Secondo James Bradburne, direttore della Pinacoteca milanese di Brera, “è una riproduzione, una copia oppure un nuovo originale? Non vedo le cose in contrasto. Piuttosto vedo l’iniziativa di Cinello in uno spettro in cui sono situate le opere che ci portano verso un approfondimento del nostro rapporto con la cultura”. Insomma la Daw è sì una replica, ma nonostante riproponga un’immagine nota e adorata da milioni di persone, lo fa con una tecnologia tale che la rende, a sua volta, non replicabile. Quindi può essere definita un originale. E questo ha condotto alla creazione di un nuovo mercato.
Le Daw dei capolavori dei tre musei italiani sono in vendita come Nft sulla blockchain di Ethereum in nove edizioni, con un prezzo compreso tra 100mila e 500mila sterline. Come funziona? Quando un acquirente compera l’opera (e il prezzo viene fissato anche di comune accordo col museo che percepirà la metà della somma, al netto delle spese per l’hardware e le tasse, mentre il resto andrà alla galleria londinese), ottiene i componenti fisici, cioè l’hardware della replica del capolavoro: lo schermo, un’unità integrata che genera l’immagine, la cornice della replica e il certificato di autenticità.
Poi ci sono le parti consistenti in una sorta di software, ovvero i componenti digitali, come l’Nft vero e proprio e un accesso univoco all’applicazione. Le opere digitali sono state tutte realizzate in collaborazione con i musei: le Gallerie degli Uffizi di Firenze, il Complesso Monumentale della Pilotta di Parma e la Pinacoteca di Brera e Biblioteca Ambrosiana, entrambi a Milano. Ciononostante, i diritti delle immagini delle opere oggetto di replica rimangono dei musei e quindi i collezionisti non potranno riutilizzare le Daw per trarci dei guadagni commerciali come il merchandising.
Tuttavia questa impresa che vede impegnato lo Stato italiano – proprietario dei beni replicati con una tecnologia avanzatissima e che diventano, di fatto, oggetti sul mercato – implica delle riflessioni che devono tener conto della situazione che da un paio di anni sta vivendo il patrimonio culturale. Con la riforma Franceschini il ministero della Cultura aveva intensificato le azioni volte ad aumentare al massimo gli introiti dei luoghi della cultura, e al tempo stesso tagliare gli stanziamenti per gli enti considerati solo dei centri di spesa: basta pensare al reale numero del personale impiegato nelle biblioteche statali, a fronte di piante organiche che prevedono numeri ben più alti. Quindi la comunicazione spinta al massimo sui social network per attirare fasce di popolazione più ampie, aumenti del costo dei biglietti, selfie liberi e selvaggi davanti ai totem dell’arte, musei con percorsi più rapidi per diminuire il tempo di permanenza del pubblico al loro interno sono tutti segni della precisa volontà di aumentare i ricavi.
Due anni di Covid hanno rovinato i piani del ministero che ora dovrà correre ai ripari per far tornare i visitatori nei musei ai livelli del 2019. Ma non sarà facile, anche perché rischia di finire tutto in una contraddizione: per esempio, il miliardo e rotti di euro stanziati per il recupero dei borghi abbandonati, al fine di diversificare i flussi turistici, sulla carta rischia di distogliere i visitatori dalle città dove si trovano proprio quei musei che per troppi mesi son rimasti chiusi e devono tornare a far cassetta.
E le Daw non sono da meno. Proprio il ministero della Cultura che da quasi un decennio sta cercando di imporre l’idea che l’arte è per tutti (fino al punto di regalare bonus agli studenti), fa accordi con le grandi case di tecnologie avanzatissime per la realizzazione di opere che brillano sia per la loro unicità, sia per il prezzo evidentemente alla portata di pochissimi. Come dire che l’arte è per pochissimi. Un ministero un po’ in confusione, pare: attivissimo e reattivo per scopi economici, molto meno per fini di educazione al bello.