“Se stai su Facebook, allora non stai lavorando!”, ecco un pensiero, molto spesso espresso anche pubblicamente, ricorrente nelle teste degli imprenditori/manager delle piccole imprese.
Il controllo nelle piccole imprese è ancora legato a un modello preistorico basato osservando il comportamento dei collaboratori piuttosto che i risultati che le persone conseguono. Quando verifico questi comportamenti, di solito, provocatoriamente chiedo agli imprenditori/capi: ma come mai non ve ne siete mai accorti? Non dovrebbe essere visibilissimo dal conseguente calo di produttività del reparto/ufficio? Ma allora in questa impresa c’è gente che avanza un sacco di tempo e nessuno se ne accorge? Siete sicuri di lavorar bene se non vi accorgete neppure che qualcuno non lavora? Le risposte o il silenzio confermano che il problema sia esclusivamente quello di impedire l’accesso ai siti.
Forse però è ora che riflettiamo sui sistemi di controllo nelle piccole e medie imprese. In queste realtà il controllo non si basa sull’output fisico o numericamente individuato in base a una programmazione. Eppure oggi, la maggior parte dei lavoratori opera su informazioni attraverso elaborazione e arricchimento delle stesse per risolvere problemi. E questo è vero anche nelle piccole medie imprese dove la componente immateriale e innovativa del prodotto (r&d, marketing, vendita, finanza, processi organizzativi, ecc.) incide sul costo del prodotto stesso in misura maggiore della stessa materiale produzione. Per questi lavori le imprese si affidano ai cosiddetti knowledge worker (lavoratori della conoscenza) che sono incaricati, ma anche istintivamente portati, a trovare soluzioni concettuali che gli consentano di raggiungere, in minor tempo e in modo più affidabile, il risultato.
Le piccole realtà sono zeppe di questi “collaboratori saggi” la cui attività consiste nel pensare, nel provare, nell’agire, nel riflettere e ripensare ciò che stanno facendo, come lo stanno facendo e con quali strumenti. Il tutto per raggiungere un risultato atteso peraltro non sempre definito esattamente. Ecco la nota dolente: la mancanza di un budget!
In questi casi come facciamo a osservare il processo produttivo? Come possiamo dire che un collaboratore lavora o no? Davanti ai nostri occhi c’è un collega che fissa il monitor di un computer, che pensa, che scrive un testo, ma anche che consulta un libro o ricerca in Internet quello che gli può servire. Come facciamo a percepire il processo racchiuso nella sua mente? Penserà a Facebook o a alla soluzione di un problema aziendale? Non ci è dato sapere! Dobbiamo quindi rinunciare al controllo? No, semplicemente non possiamo usare il modello di controllo di una volta, quello del vecchio capo che passava in giro per i banchi o sentiva il ticchettio delle macchine da scrivere. Perché poi il risultato di questo approccio influisce anche sui sistemi di valutazione delle prestazioni. In molte aziende si finisce con esprimere il giudizio su un collega osservandone semplicemente il comportamento esteriore, in quanto è ciò che in realtà ci è possibile osservare.
I piccoli imprenditori devono costringersi a confrontare solo risultati ottenuti dai loro collaboratori con quelli attesi, cosa molto più complessa e a cui ancora molte aziende sono meno abituate. La fatica sta infatti nel definire i risultati attesi, contestualizzarli, classificarli per tipologia, quantificare quelli quantificabili (anche in maniera approssimativa), trovare indici di misurazione sia individuali che di gruppo, per confrontarli poi con quanto in realtà si è ottenuto. Il giudizio in tal modo passa dalle persone alle cose, cioè ai risultati attesi.
E a quel punto cosa ci interessa se il collaboratore va su Facebook? L’importante è che i risultati ci siano. In caso contrario c’è il rischio di contornarsi di persone formalmente ineccepibili, ma che non portano risultati. Pensiamo a imparare a fare un budget piuttosto che controllare l’utilizzo dei social.