“Abbiamo bisogno al più presto di caschi militari, di giubbotti anti proiettili di livello quattro, di vestiti e scarponi per chi va a combattere”. La voce di don Ihor arriva chiara e pacata da Leopoli, la città ucraina con il centro storico patrimonio dell’umanità dell’Unesco, a circa settanta chilometri dal confine polacco e a 160 dai monti Carpazi Orientali.
A lanciare questo appello non è un uomo dell’esercito, un parlamentare o uno dei tanti giovani volontari che hanno deciso di arruolarsi ma un membro della Chiesa cattolica cristiana. Anche lui, come tutti i suoi fedeli e i suoi concittadini è pronto a dar battaglia. Farà resistenza con la tonaca o con il clergyman.
Quando gli chiediamo se andrà a combattere ci risponde: “Non so cosa farò; non posso rispondere ora. La mia missione è quella di darmi da fare dove posso essere più utile: dobbiamo organizzarci e sostenere chi dovrà fronteggiare i russi”.
Leopoli è la città da dove provengono molte donne che lavorano in Italia per accudire gli anziani. Fino al 24 febbraio non sapevamo quasi nulla della loro terra, di questo centro di quasi 800mila abitanti dove ogni giorno arrivano circa 200mila pendolari per studiare all’Università o per lavorare nelle industrie.
Ora Leopoli è la capitale della solidarietà. È il luogo dove arrivano medicine, cibo, biancheria, materiale utile all’esercito, ma anche donne e bambini che dall’est dell’Ucraina cercano di fuggire in Polonia, in Romania o in Moldavia, facendo obbligatoriamente tappa in questa città per ora preservata dalla ferocia delle truppe russe. Alla stazione tutti i treni hanno ormai una sola tratta: partono dall’Est, da Kharkiv, da Dnipro, per giungere a Leopoli zeppi di persone. Altre corse sono state annullate.
Da lì inizia la diaspora ucraina. C’è chi resta, chi tenta di raggiungere i parenti in Italia, in Germania, in Francia, chi non ha nessuno e attraversa a piedi il confine puntando alla Polonia per poi affidarsi al destino. “Comprare caschi che proteggono o giubbotti per difendersi qui è impossibile – dice ancora al Fatto.it don Ihor – Non ce ne sono più. Ciò che troviamo arriva da Varsavia attraverso delle persone che riescono ancora a recuperare ciò che più ci serve”.
Don Ihor fino a pochi giorni fa si occupava di anime, di giovani, di pastorale. Ora ha dovuto imparare anche il linguaggio della guerra: “Non so cosa significhi giubbotto anti proiettile di livello quattro ma riferisco quanto mi hanno detto chi li usa”. Il suo nome in ucraino significa “Dio è gentile”. Don Ihor ne è certo, lo sa, ma ora non basta più solo pregare: “È possibile che arrivino anche qui e dobbiamo farci trovare pronti. Putin l’ha detto: vuole tutta l’Ucraina”.
Leopoli si aspetta l’attacco. Le parole di don Ihor ci descrivono una città in allerta: posti di blocco ovunque; strade disseminate di cavalli di Frisia; abitazioni e negozi trasformati in fortezze. E poi, dietro le quinte, un formicaio di uomini, donne e bambini che preparano molotov con bottiglie di vetro; che raccolgono barrette proteiche e tè liofilizzato arrivati dal resto dell’Europa per essere inviati a chi già sta al fronte.
Mentre scriviamo il sacerdote resistente ci informa con un video (che preferisce non divulgare per paura) che dalla stazione di Leopoli stanno partendo una tonnellata di medicinali per Kiev. “Il cibo c’è. Quello lo troviamo. Arriva dalla Polonia, da dove si può ancora attraversare il confine. Mandateci soldi per acquistare strumenti per proteggerci e medicinali. Tutte le armi che sono arrivate dai vostri Stati sono andate ad Est dove ora c’è più bisogno”, spiega don Ihor, come se fosse un mantra.
La sua messa, da quando è iniziata la guerra, è tra la gente. È tutto urgente. C’è frenesia, paura, ma il prete è anche molto razionale: “I sabotatori russi son qui da tre mesi. Sono arrivati a novembre: hanno preso case in affitto e per tre mesi hanno aiutato a pianificare tutto. Hanno fotografato le strade delle nostre città; hanno realizzato mappe e all’ultimo con una vernice verde hanno segnato a terra dove possono atterrare i soldati paracadutisti”.
Secondo il prete è accaduto tutto con l’inganno, complice di ogni guerra: “Hanno detto falsità. E ora continuano a dirne. Ho dei contatti a Kherson dove ormai vedono solo la TV russa; mi hanno inviato dei video dove dicono alla gente che stanno portando la pace contro i nazisti. In questi giorni si è parlato dei forni crematori per far sparire i corpi dei soldati russi: immagini che non fanno vedere ma noi qui abbiamo le foto, i video che lo testimoniano”.
Don Ihor è in collegamento con il resto del mondo. Ogni giorno informa gli amici con dei vocali, con fotografie: testimonianze registrate dal vivo che mostrano una città brulicante, in fermento. In Italia, il prete ucraino, è in contatto con Anna che da anni vive nel nostro Paese, a Madonna di Campiglio. È lui ad aver celebrato, a Leopoli, le nozze di questa giovane donna e di suo marito Matteo.
Anna ha ancora mamma e papà in Ucraina e il fratello: “Nessuno di loro vuol fuggire qui. I miei genitori hanno la loro casa costruita con tanta fatica, gli animali e non se la sentono ora di abbandonare tutto. Mio fratello sta dando una mano nell’organizzazione ma poi, appena potrà, andrà a combattere per la nostra patria. Se non avessi figli l’avrei raggiunto”. Anna, sta facendo di tutto per dare una mano al suo popolo, mettendo in moto una grandiosa macchina di solidarietà. A casa sua sono arrivate la cognata e un’amica con le figlie. Lei ha chiamato assessori, sindaci e vescovo per raccogliere ciò che è più utile: “Dobbiamo agire velocemente. Non eravamo pronti ad un’invasione di tutto il Paese. Ogni giorno sento don Ihor. Lui sa cosa è necessario in questo momento. Ogni nostra telefonata finisce in questo modo: ‘slava Ucraini’ (Gloria all’Ucraina) e la mia risposta è ‘heroiam slava’ (Gloria agli eroi)”. Vengono i brividi ad ascoltare quest’ultime parole.
Il don è effettivamente informato, preparato, sa anche che l’Italia è divisa sulla pace. Sa della manifestazione di oggi a Roma. Quando gli accenniamo alla spaccatura sulle forniture militari non tentenna nel rispondere: “Faccio parte della Chiesa, ci è chiesto di amare anche i nemici ma quando sei in guerra hai delle responsabilità. Voglio spiegarmi con un esempio banale: se per strada vedo un uomo che sta picchiando un bambino ho il dovere di intervenire e di fermarlo in ogni modo. La nostra scelta non è tra fare o non fare ma tra difendere o meno i più deboli. Finché non vedi con i tuoi occhi una bomba su un asilo forse non puoi capire”.