La resistenza ucraina sta rallentando l’avanzata putiniana e sta superando, oltre le previsioni, la prova più ardua, quella contro il tempo. Non era scontato e soprattutto non era previsto nella visione megalomane di Putin che contava di marciare su Kiev celermente e di installare un governo fantoccio, dopo essersi sbarazzato dell’attuale accolita di “nazisti e tossicodipendenti brutali” accusati nel messaggio in diretta TV del 3 marzo di usare i civili come scudi umani, di aver catturato e di trattenere studenti stranieri, di non permettere evacuazioni, di posizionare cecchini camuffati da nemici sui tetti. Il leitmotiv di Putin, in quello che era in sostanza un consiglio di guerra in diretta per dimostrare ai nemici e al mondo un potere talmente inattaccabile e sovrastante da poter essere baldanzosamente ostentato, è stata la contrapposizione tra l’eroismo russo dei caduti “costretti a combattere contro i nazisti” da ricompensare con lauti risarcimenti e magnifiche onorificenze e lo squallore delle truppe paramilitari dei mercenari neonazisti schierate da Kiev.
Ma per arrivare al cuore delle truppe, non particolarmente motivate, e dei cittadini russi sempre più provati economicamente e quantomeno dubbiosi sulla necessità dell’aggressione, ha esibito l’orgoglio di capo assoluto e incontrastato di un impero multietnico con una rivendicazione imperiale che implica l’appartenenza dei sottoposti: “Io sono un daghestano, un ceceno, un tartaro, un russo, un ebreo, un osseto”. Loro non sono altro che nazisti. Ergo, “Nessuno può minacciarci” rivolto presumibilmente all’Occidente e all’Europa in particolare e “Arriveremo fino in fondo”, che significa per certo almeno finora l’assoggettamento totale dell’Ucraina, come riferito da Macron dopo l’ennesima telefonata, da smilitarizzare e denazificare, ma più ancora “il peggio deve arrivare”. Poi, per evidenziarne l’impresentabilità, mai un incontro diretto con Zelensky, nessun cessate il fuoco e negoziati con rappresentanti russi di secondo livello per aprire corridoi umanitari funzionali, oltre che alla fuoriuscita di civili, all’avanzamento di quella colonna di 65 Km di blindati russi segnalati da giorni che sta procedendo verso la capitale.
Il bollettino di guerra delle ultime ore è implacabile e le notti riservano sempre di più notizie agghiaccianti come l’attacco russo alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, dopo quello a Chernobyl, con i pompieri impossibilitati per ore a spegnere l’incendio a causa del fuoco degli invasori. Le truppe russe sono in avvicinamento a Kiev, si intensificano i bombardamenti nei villaggi vicini e ancora una volta da quando è iniziata l’aggressione unilaterale di Putin l’Europa sembra finalmente in grado di parlare con una sola voce, con buona pace delle critiche a priori dei sedicenti pacifisti-neutralisti, orgogliosamente equidistanti da Mosca e Bruxelles.
Dal terribile giorno che ha segnato per l’Ucraina l’inizio di una resistenza eroica, senza virgolette, e per le democrazie occidentali un richiamo estremo e non rinviabile alla difesa della loro identità e all’assunzione di una relativa onerosa responsabilità, pare che l’Europa abbia smesso di stare alla finestra a guardare l’invasione di altri stati sovrani. Come ha più volte osservato anche Massimo Cacciari “noi veniamo sempre a sapere ex post, non abbiamo minimamente saputo gestire lo sfascio dell’ex Urss” e, aggiungerei, abbiamo in qualche modo contribuito all’esito nefasto di quella che avrebbe dovuto essere la transizione aperta coraggiosamente da Gorbaciov con la perestroika, degenerata con il passaggio del testimone da Eltsin a Putin nella più fosca riedizione del passato imperialista. Le parole di Ursula von der Layen “Restiamo pronti ad adottare ulteriori sanzioni se Putin non si fermerà e tornerà indietro” in una dichiarazione congiunta con il segretario di Stato Usa Antony Blinken confermano per una volta nei fatti che questa volta la cooperazione tra Usa e Ue esiste e indubitabilmente “è il cuore dell’efficace risposta” alla Russia di Putin.
Il susseguirsi di apparizioni accuratamente calcolate, la più recente e rassicurante quella di un Putin serafico attorniato da un gruppetto di signore davanti a una teiera in un incontro idilliaco al femminile in vista dell’8 marzo, diventa occasione per un’escalation di aggressività comunicativa nei confronti dell’Occidente. Non solo la riconferma che “La Federazione Russa considererà qualsiasi tentativo di stabilire una no-fly zone sull’Ucraina come partecipazione all’ostilità” ma anche l’equiparazione delle misure di ordine economico a interventi bellici: “le sanzioni alla Russia equivalgono a una dichiarazione di guerra”. Intanto, pur se con tempi estremamente più lunghi di quelli preventivati a Mosca, l’avanzata delle truppe russe prosegue, molte città del sud tra cui Mariupol sono allo stremo, le centrali nucleari continuano a essere prese di mira nonostante il disastro fortuitamente scampato a Zaporizzhja, Leopoli, capitale culturale e patrimonio dell’Unesco, sente con la moltiplicazione dei check point avvicinarsi lo scontro mentre per le strade cittadini inermi tentano di contrapporsi ai soldati russi.
I corridoi umanitari sono stati aperti e subito sospesi per i ripetuti bombardamenti che hanno impedito l’evacuazione di 200 mila persone da Mariupol, i negoziati continuano a slittare per colpa di Zelensky, affetto “da una frenesia militarista” secondo il ministro russo degli esteri Lavrov. Quanto agli interrogativi su quello che potrebbe o dovrebbe fare nel frattempo l’Occidente mi sembra che una risposta chiara e articolata l’abbia data Vladimir Milov, economista consigliere di Navalny, l’oppositore a cui è stato impedito di candidarsi alle ultime elezioni – vivo, benché ovviamente detenuto, solo per l’intervento tempestivo di Angela Merkel che lo sottrasse alle “cure” dei suoi avvelenatori e lo portò in salvo in Germania. Milov, che vede e vive la situazione da Mosca, ritiene che “l’Occidente debba continuare a fare quello che sta facendo adesso“. E spiega nell’intervista del 4 marzo sulla Stampa che “I fronti su cui si combatte sono quattro. Il primo è la resistenza dell’Ucraina all’avanzata russa. Il secondo è la reazione del mondo, il fronte delle sanzioni. Il terzo è la rivolta della società russa. E solo il quarto, in ordine di importanza, è una rivolta interna dell’élite putiniana.”
La resistenza dell’Ucraina, purtroppo ma inevitabilmente, è il primo fronte davanti a una guerra di invasione che ci fa ripiombare, come ha scritto Erri De Luca, in un’epoca di guerre di annessione finalizzate alla conquista e alla sottomissione di una nazione confinante: a riconferma nelle ultime ore Putin, in un tamtam di minacce, ha scandito chiaramente “l’Ucraina sta mettendo in discussione la sua esistenza come stato”.
Se si vuole uscire dall’ambiguità e dall’ipocrisia di un pacifismo un po’ ipocrita che fa da puntello a una neutralità e un’equidistanza che sconfinano in sudditanza psicologica al regime della paura putiniano e includono spesso calcoli particolaristici sarebbe il caso di prendere atto che la resistenza non si fa senza armi. E magari concentrarsi un po’ meno sulla presunta mancanza di trasparenza del nostro governo sulle modalità tecnico-logistiche, che non possono ovviamente essere sbandierate nei dettagli, con cui i nostri limitati mezzi bellici entrano dalla frontiera polacca in Ucraina e tenere saldamente presente che “L’Ucraina oggi è una Stalingrado sparsa sull’intero territorio invaso. I suoi combattenti compiono il sacrificio della resistenza per il diritto elementare e insostituibile di non essere sudditi asserviti a una potenza straniera”. (Erri De Luca La Stampa, 4 marzo).