In tempo di guerra il nucleare fa paura, anche quello pacifico. Il timore per un eventuale effetto domino del conflitto nell’est europeo si è concretizzato con la battaglia attorno alla centrale atomica di Zaporizhzhya, la più grande del continente. Con sei reattori, la centrale ha una potenza installata di 5,7 Gigawatt, quasi sette volte quella installata nella centrale atomica dismessa di Caorso e una volta e mezza quella del defunto impianto di Černobyl‘.
Per la prima volta nella storia dell’umanità, si combatte in un’area dove il nucleare cosiddetto di pace è estremamente diffuso e imponente, giacché il 50 percento dell’energia elettrica del paese viene prodotta da 15 reattori distribuiti in quattro centrali. La quota nucleare del paniere energetico dell’Ucraina è seconda nel mondo solo a quella francese (vedi figura). E, in Ucraina, la vulnerabilità di questi impianti, retaggio del periodo sovietico, è molto elevata per via della vetustà impiantistica e tecnologica.
Già nel maggio 2014 era stata attaccata la centrale di Zaporizhzhya. È meno obsoleta di Černobyl’ ma comunque vetusta: operativa dal 1985, ha una prospettiva di entrare nella fase del decomissioning tra una decina d’anni. L’attacco era stato condotto da circa quaranta uomini armati che affermavano di essere membri del Pravyj Sektor, organizzazione paramilitare ultranazionalista di estrema destra attiva soprattutto nel sud-est. Avevano tentato di accedere all’area della centrale ma erano stati respinti dalla polizia ucraina prima di entrare a Enerhodar.
Nello stesso anno, l’allora premier Yatseniuk annunciò un incidente, segnalandolo come un cortocircuito nel sistema di trasmissione e distribuzione in rete. A fine anno, Indipendent del 28 dicembre 2014 aveva informato che “l’Ucraina ha spento oggi uno dei sei reattori della sua centrale nucleare più potente, per la seconda volta in un mese, a causa di un apparente malfunzionamento elettrico”.
Solo vivendo molto a lungo conosceremo le vicende belliche attorno alle centrali nucleari ucraine e, soprattutto, la loro ricaduta. A mano a mano la guerra prosegue, il livello di manipolazione dell’informazione aumenta, traguardando le vette della seconda guerra mondiale. E, forse, non potrebbe essere altrimenti. L’esperienza della catastrofe di Cernobyl ha consolidato due certezze. La prima riguarda la diffusione del contagio atomico, che si estende ben oltre i confini territoriali, percorrendo lunghe traiettorie disegnate dalle bizze della circolazione atmosferica, prevedibili solo fino a un certo punto. La seconda è il velo di riserbo e segretezza da parte degli addetti ai lavori, che facilmente scivolano nella omertà, non solo nel paese luogo del disastro, ma anche in quelli colpiti dalla diffusione del contagio.
Poiché la dispersione spaziale della contaminazione varia in modo enorme, analizzare la ricaduta di Černobyl’ era stato un esercizio difficile, condotto anche con modelli matematici all’epoca poco convenzionali. Parlo di frattali e multi-frattali a cui ho dedicato molti studi, soprattutto in quel periodo. I modelli vanno calibrati e validati in base ai dati, osservazioni e misure. Un’attività non affatto improba, nella fattispecie, giacché l’invenzione del contatore Geiger risale al 1913. Ebbene, se qualche dato era trapelato per l’Italia settentrionale, dove c’erano state significative contaminazioni del terreno, quasi nulla si era potuto conoscere sulla dispersione in territorio francese. Tutto ciò venne denunciato anche a livello politico da una coraggiosa interrogazione al Parlamento Europeo di Marco Cappato. Gli impianti di produzione dell’energia sono un obiettivo di fondamentale importanza strategica. Di norma, gli attaccanti cercano di preservarne l’efficienza, per poterne usufruire in caso di avanzata, ma non sempre in caso di ritirata vale la stessa regola.
Gli impianti atomici non sono i soli a essere a rischio. Se l’impatto di un incidente agli impianti atomici è continentale, anche le dighe sono infrastrutture in grado di provocare enormi disastri sul territorio, se attaccate e distrutte. Per esempio, durante il conflitto siriano le dighe hanno rischiato di trasformarsi in una vera e propria arma letale, come raccontai anni fa, per via della vulnerabilità dei piedi di gesso della diga di Mosul. Andò tutto bene, allora, anche se la intrinseca debolezza di quel manufatto non fa dormire sonni tranquilli. Se l’argomento suscita qualche interesse, nel prossimo post parlerò del pericolo di attacco o sabotaggio delle dighe. In questo caso, è utile ricordare l’esperienza secolare maturata nel secolo scorso, dalle due guerre mondiali al conflitto vietnamita. Non è poco. E vorrei sottolineare come le dighe siano state uno storico obiettivo bellico proprio in Ucraina.