L'INTERVISTA - Per Andrea Ruggeri, direttore del Centro per gli Studi Internazionali dell'università di Oxford, la questione sicurezza interna alla Russia legata all'espansione a est della Nato sia stata in parte strumentalizzata dal leader del Cremlino che, in futuro, vorrà sedersi al tavolo delle trattative da una posizione di forza: "Il fallimento dei corridoi umanitari? E' la 'strategia del madman'. Vuole un cambio di regime a Kiev"
Vladimir Putin vuole un cambio di regime in Ucraina, vuole a capo del governo di Kiev un uomo che guardi a Mosca e non a Bruxelles, come durante l’era Yanukovich. Ma più che temere i missili e le truppe Nato al confine, come ha invece più volte denunciato, ha paura soprattutto dell’allargamento a est delle democrazie liberali europee che potrebbero destabilizzarlo internamente. È questa la lettura data a Ilfattoquotidiano.it da Andrea Ruggeri, direttore del Centro per gli Studi Internazionali dell’università di Oxford, mentre il conflitto ucraino continua a mietere vittime, i negoziati faticano a svilupparsi e le violazioni della tregua con attacchi ai corridoi umanitari sono ormai una costante.
La diplomazia sembra essersi impantanata già in partenza. Ma si riesce a capire quali siano i reali obiettivi dei principali attori in gioco?
È complicato dirlo al momento. Ciò che è certo è che l’Unione europea dovrà rivedere la propria autonomia energetica e strategica. E i tempi annunciati nelle varie dichiarazioni mi sembrano onestamente troppo ristretti. Si parla di mesi, ma ci vorranno anni. La Cina, guardando a occidente, ha in testa soprattutto la Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta. Al momento è in fase d’attesa, Pechino aspetta che Washington le chieda di assumere il ruolo di grande mediatore per risolvere la crisi e questo potrebbe aumentare la sua influenza a ovest. C’è chi poi sostiene che la guerra iniziata da Putin stia addirittura facendo un favore a Xi Jinping: sta mostrando fino a dove è disposto a spingersi l’Occidente nel caso in cui un regime autocratico decida di imporre la propria forza su territori che godono di una certa autonomia. E in ottica Taiwan questo è tutt’altro che marginale.
E Putin? Cosa vuole veramente?
Decifrare i piani nella testa di Putin si è rivelato compito arduo per tutti i Paesi coinvolti. All’inizio sembrava che non volesse nemmeno invadere il Paese, poi che volesse ottenere un riconoscimento delle autoproclamate repubbliche indipendentiste del Donbass, adesso alcuni temono che addirittura punti a un’annessione dell’intera Ucraina o di una parte di essa. Quest’ultima ipotesi, personalmente, la vedo molto complicata. Credo che il suo reale obiettivo rimanga quello di un regime change, ossia sostituire l’attuale governo guidato da Volodymyr Zelensky con un esecutivo legato a Mosca, un po’ come era quello di Yanukovich prima delle proteste di EuroMaidan. E poi magari spingere per l’indipendenza di Donbass e Crimea. Per questo i colloqui non decollano, perché la controparte ucraina non può accettarli.
Il conflitto può essere interpretato come un modo per arrivare al tavolo negoziale da una posizione forte e imporre una riorganizzazione del fianco est Nato, la cui avanzata è stata più volte definita una “minaccia” dal Cremlino?
No, non credo che la sua sia una risposta all’allargamento a est della Nato. Credo si tratti più di una risposta militare a una paura che però è politica. Mi spiego, credo che a far paura a Putin non sia solo la presenza di truppe e armamenti Nato ai suoi confini, ma soprattutto l’allargamento a est dell’Unione europea. L’avvicinamento alla Russia dei Paesi Ue coincide con l’avvicinamento di un sistema che prevede forme di governo democratiche liberali che contrastano con la forma di governo autocratico che invece lui promuove. Essere circondato da democrazie liberali rischia di “contaminare” anche il suo sistema, rischiando di destabilizzarlo.
Indipendentemente dal suo obiettivo finale, resta difficile capire perché Mosca stia continuando a violare la tregua bloccando i corridoi umanitari. Una guerra prolungata penalizza prima di tutti la Federazione russa e allontana proprio l’inizio di colloqui che non coinvolgano solo Kiev.
Fa tutto parte di una strategia, quella che viene definita del madman, dell’uomo pazzo. Consiste nel disorientare l’altra parte, in questo caso il blocco Nato-Ue, che non riuscendo a decifrare le azioni della controparte rimane disorientato. In questo modo, quando si arriverà finalmente a sedersi a un tavolo negoziale, Putin potrà avanzare delle richieste che, secondo i suoi piani, potrebbero essere accontentate proprio perché la controparte non si renderà conto di aver fatto concessioni importanti. Chiedere l’impossibile per ottenere il più possibile, estremizzare il conflitto per avere il massimo profitto, in poche parole.
Crede che, una volta al tavolo, le richieste di Putin si limiteranno alla sola Ucraina o coinvolgeranno anche altri Paesi come Polonia, Baltici o gli scandinavi?
Difficile dirlo. Questa costante inconsistenza delle richieste russe è, appunto, disorientante e lascia pensare che Putin voglia addirittura di più di quello che chiede. Ma da qui a ipotizzare anche rivendicazioni su altri Paesi ce ne corre.
Ciò che ha detto fino ad ora conferma che si tratti di una guerra premeditata come molti la definiscono.
È una guerra ed è premeditata. Quello a cui stiamo assistendo non avviene da un giorno all’altro, le truppe sono state spostate mesi prima, abbiamo visto bilaterali giornalieri tra Putin e i leader europei, puntualmente falliti, e un video in cui si annuncia l’invasione registrato giorni prima. Sulla premeditazione non mi sembra ci siano dubbi.
Dopo questo precedente, come potrà il blocco Nato-Ue difendersi da future recriminazioni territoriali se le autocrazie sanno che non è disposto ad opporsi militarmente?
Non sarei così negativo. Guardiamo il voto all’Onu: chi si è schierato dalla parte della Russia sono solo Paesi come Corea del Nord, Bielorussia, Eritrea e Siria. Anche la Cina si è astenuta, mandando un segnale importante a Mosca. Per quanto riguarda il blocco Nato allargato, credo che dopo il ritiro dall’Afghanistan debba riorganizzare la sua agenda: dal 2000 abbiamo visto fallimenti come, appunto, l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, la Libia. Questi tentativi di cambio di regime in altre aree del mondo sono stati un fallimento e hanno dimostrato che la democrazia non può essere esportata.