Mentre prosegue ininterrotta la scellerata invasione militare dell’Ucraina orchestrata da Putin, inizia a delinearsi l’onda d’urto economica che ampie aree dello spazio post-sovietico stanno per subire. Soprattutto l’Asia Centrale, regione in cui la crisi legata alle sanzioni inflitte alla Russia ha già iniziato a mordere, con tutti i rischi di destabilizzazione che ciò comporta. Un contraccolpo così immediato si spiega con il profondo legame che unisce le economie e i sistemi finanziari regionali con quelli russi. Anche sul fronte valutario: ad esempio, il crollo del rublo si è immediatamente tradotto in una perdita di valore molto significativa per il tenge, la valuta del Kazakistan. La banca centrale del Paese sta facendo l’impossibile per sostenere la moneta nazionale a suon di iniezioni di liquidità per centinaia di milioni di dollari, ma i margini di manovra sono abbastanza limitati.
Con delle premesse del genere, le prospettive per i mesi a venire non sono certo rassicuranti. La Banca Mondiale ha appena rilasciato le sue previsioni sull’andamento dei flussi di rimesse nel 2022. Le rimesse, ossia il denaro inviato in patria alle proprie famiglie dai lavoratori emigrati all’estero, sono una vera e propria linfa vitale per alcune delle Repubbliche centro asiatiche, pesando per decine di punti percentuali sul Pil annuo. Ecco perché i dati comunicati dall’istituto fanno ancora più impressione. Secondo la Banca Mondiale, infatti, lo scenario è tragico: se prima del conflitto la prospettiva era di un aumento del flusso di rimesse verso il Kazakistan, l’Uzbekistan e il Tagikistan pari rispettivamente a +7%, +3% e +2%, grazie anche alla ripresa dopo le chiusure globali causate dalla pandemia, dopo lo scoppio del conflitto la previsione è di -17%, -21% e -22%. Un vero e proprio crollo, che si ripercuoterà sulle performance economiche dell’area, impoverendo ulteriormente larghe fasce della popolazione locale. Segno opposto invece per i flussi verso l’Ucraina, che aumenteranno grazie all’aiuto inviato in patria dagli ucraini residenti all’estero.
Facile immaginare la preoccupazione che sta serpeggiando tra i leader dell’Asia Centrale, alcuni dei quali veri e propri autocrati, consapevoli della fragilità dei loro regimi e della possibilità molto concreta che la crisi economica si traduca in destabilizzazione e tensione interne. Non è un caso, quindi, che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia sia stata accolta con estremo scetticismo. Come sempre vi è un’eccezione, rappresentata in questo caso dal presidente del Kirghizistan, il populista Sadyr Japarov, che ha espresso il proprio sostegno a Putin criticando la gestione occidentale dei rapporti con l’Ucraina. Evidente in questo caso la necessità di non alienarsi l’amicizia dell’inquilino del Cremlino, considerando che milioni di kirghisi raggiungono ogni anno la Russia in cerca di fortuna. La stessa situazione che sta spingendo al silenzio Rahmon, leader tagico, mentre l’assenza di dichiarazioni ufficiali da parte delle autorità del Turkmenistan – dove sta per avvenire un passaggio di consegne al vertice tra l’attuale leader Gurbanguly Berdymukhammedov e il figlio Serdar – è legata anche al tradizionale isolazionismo del regime che guida il Paese.
Venendo ai due “giganti” regionali, Kazakistan e Uzbekistan, la loro neutralità è stata ribadita in più occasioni dai rispettivi governi. A fine febbraio, addirittura, le autorità uzbeche hanno pubblicato una dichiarazione opposta rispetto a quanto reso pubblico dal Cremlino, che aveva annunciato il supporto di Tashkent alla decisione di Mosca. Il Kazakistan è sulla stessa lunghezza d’onda, fin dall’inizio della crisi. Dopo il riconoscimento da parte russa delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk, il ministro degli Esteri del Paese si era infatti affrettato a dichiarare di non considerare in agenda l’ipotesi che lo stato kazaco potesse fare altrettanto. Lo scorso fine settimana si è inoltre tenuta ad Almaty, principale centro finanziario del Paese, una protesta contro la guerra in Ucraina a cui hanno partecipato migliaia di cittadini. Emblematico in questo caso il fatto che le autorità abbiano consentito lo svolgimento della manifestazione, considerando la repressione a cui tradizionalmente sono soggette le mobilitazioni di piazza in Kazakistan. Una mossa ancora più significativa se si pensa che solo un paio di mesi fa il presidente kazaco, Tokayev, ha richiesto l’intervento delle truppe della CSTO – organizzazione di sicurezza a guida russa – per salvare il proprio regime in crisi per le partecipatissime proteste che a inizio anno hanno interessato il Paese e per una lotta intestina alla nomenklatura. Questa apparente scarsa riconoscenza può essere spiegata alla luce del timore delle autorità kazache che il Paese possa essere il prossimo nome sulla lista di Putin, visto che la parte settentrionale dell’immenso territorio del Kazakistan è abitata in grande maggioranza da cittadini di etnia russa e che in passato non sono mancati pesanti riferimenti nazionalisti all’area da parte di esponenti politici della Federazione (tra cui lo stesso Putin).
Come in ogni crisi, se qualche attore ne subisce le conseguenze altri ne possono trarre beneficio: potrebbe essere il caso della Cina. Estremamente contrariata dalla mossa russa per varie ragioni (logistiche e politiche su tutte), la Repubblica Popolare è attrezzata per approfittarne, perlomeno in Asia Centrale. Un’area in cui negli ultimi anni ha investito ingenti quantità di denaro diventando uno dei principali partner economici per le Repubbliche della regione. Basti pensare che il Kirghizistan e il Tagikistan hanno debiti nei confronti della Cina pari rispettivamente al 40% e quasi al 50% del loro debito estero complessivo e la probabile difficoltà di ripagarli in futuro potrebbe consentire a Pechino di ottenere, in cambio di un eventuale mancato pagamento e nel medio periodo, concessioni, anche territoriali e militari, e influenza. Come a dire che la Russia rimarrà un attore imprescindibile nell’area, ma il gradino più alto del podio in termini di peso specifico potrebbe essere ceduto a Pechino. Certamente non uno degli obiettivi che Putin si è prefissato quando ha deciso di invadere l’Ucraina sconvolgendo il mondo.