di Carmelo Sant’Angelo
Quando Federico II entra da conquistatore a Gerusalemme, senza che una goccia di sangue sia stata versata, la cosa suscita malumori. Sul fronte cristiano, il patriarca della città, facendo rapporto al papa Gregorio IX, deplora il fatto che non ci sia stata nessuna guerra e, peggio ancora, che i cristiani ed i musulmani possano convivere pacificamente. I cristiani, che adesso avrebbero avuto la possibilità di partecipare alla messa presso la Cappella del Santo Sepolcro, fanno in tempo ad assistere ad un’unica funzione religiosa, a cui Federico, tra l’altro, non partecipa in quanto scomunicato. Lo stesso pomeriggio, però, l’imperatore entra nella Cappella e si autoincorona re di Gerusalemme. Per tale oltraggio, il Papa lancia l’interdetto sulla città: Gerusalemme è una città sconsacrata, non si potranno più celebrare funzioni religiose.
I musulmani, dal canto loro, pensano che il sultano d’Egitto, Malik al Kamil, li abbia venduti all’infedele e trovano conferma nella smilitarizzazione della città, che divenendo città aperta, perde la propria cinta muraria. Solo i dotti musulmani, che poi sono i cronisti dell’epoca, apprezzano l’esito diplomatico della crociata.
Questo frammento di storia, di oltre 7 secoli fa, ci dice che per regolare i conti abbiamo bisogno di vedere scorrere il sangue. Anche in Ucraina non si vede all’orizzonte una reale volontà di negoziare. Le armi potranno tacere solo nel momento in cui le parti sapranno a cosa intendono rinunciare. Al momento, c’è solo una timida apertura di Zelensky sulla Crimea e sulle repubbliche secessioniste. I negoziati sono incentrati sui corridoi umanitari, lasciando presagire la volontà russa di procedere a intensi bombardamenti delle città nemiche. Tutti conoscono l’esito del conflitto, attesa la disparità delle forze in campo, ma nessuno ne conosce la durata.
La resistenza ucraina è stata foraggiata, ancor prima del conflitto, con le armi provenienti dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Turchia ed oggi con gli altri aiuti europei. Ho l’impressione che i Paesi non belligeranti attendano di vedere oltrepassata una determinata soglia di morte e di distruzione. Aspettano che Putin varchi la linea “dell’accettabile” nefandezza per esiliarlo dalla comunità internazionale e, forse, anche dalla guida politica del suo Paese. Al contempo, occorre pascere il nazionalismo ipertrofico degli ucraini garantendo loro una resistenza quanto più duratura. Quanti morti occorre ancora mettere sulla bilancia perché Putin diventi un pària, spregiato da tutti, e Zelensky un eroe della santa alleanza? L’Ucraina per poter essere cooptata dall’elite europea dovrà pagare il proprio tributo con il sangue dei suoi figli?
Ancor prima che si aprissero le ostilità non vi è stata alcuna volontà di evitare la guerra. Si è, invece, assistito ad una escalation di minacce verbali, utili ad appiccare l’incendio. Un velo pietoso lo stendiamo sul premier italiano e sul suo ministro degli Esteri. Sono riusciti in pochi giorni a dissipare un patrimonio di relazioni cooperative multilaterali intessute nell’arco di decenni. Adesso che sono ai margini delle trattative entrambi sostengono la subalternità della diplomazia e la bontà delle armi, che avrebbero il pregio di “costringere Putin a sedersi al tavolo delle trattative”. Eppure lo stesso Putin aveva, sin dall’inizio, fatto riferimento all’Italia come interlocutore privilegiato tra i Paesi della Nato, salvo virare su altre controparti.
La sesta crociata fu preceduta da un fitto corteggiamento tra le parti: Federico inviò al Sultano delle pietre preziose e un cavallo sellato d’oro. L’ambasciatore egiziano portò in dono un elefante e l’imperatore ricambiò con un orso bianco. Una volta si regalavano degli sfortunati animali, oggi si usano per offendere l’interlocutore. Una visita alla Cappella Palatina sarebbe un salutare bagno di umiltà per i “Migliori”. Federico è ancora lo stupor mundi.