Ci sono persone che ci accompagnano anche se non le abbiamo conosciute, se non hanno mai saputo di noi. Persone estranee alla famiglia, come agli amici, ma che abbiamo considerato vicine, alle quali abbiamo voluto bene, forse anche perché ci hanno accompagnato da ragazzi e ci hanno regalato emozioni indelebili.

Ho saputo della morte di Pino Wilson leggendo un’agenzia di stampa, lunedì mattina, ma non ci ho creduto. Così ho cercato in rete trovando in pochi minuti la conferma. Indiscutibile. A quel punto mi sono arreso, anzi mi sono fermato e sono tornato indietro a quando Wilson giocava, da libero, con il “4” sulle spalle. E io lo guardavo, seduto sulle panche di legno dell’Olimpico. Del campionato dello storico primo scudetto, il 1973-74, ricordo poco. Ma di quello successivo, molto e poi sempre di più. Partite e risultati, ma anche azioni, goal salvati oppure fatti. Di quella Lazio che non esiste quasi più, ogni giocatore impersonava qualcosa. Come si trattasse di eroi epici.

Chinaglia era la corsa inarrestabile verso la porta, D’Amico, il giocoliere capace di tutto – nel bene e nel male – Frustalupi l’organizzatore illuminato, Pulici, il portiere essenziale, Wilson, il libero elegante. La sua specialità? La scivolata sull’attaccante in corsa. Prendendo il pallone, solo eccezionalmente i piedi avversari. Mi piaceva vederlo correre per il campo, quasi in punta di piedi, come se stesse danzando. Preferibilmente al centro, dietro, ma anche più avanti, quando intravvedeva lo spazio per scendere. A volte fino all’area di rigore.

Nel calcio che fu, Wilson è stato il mio capitano. Fascia rossa al braccio e testa alta. Sempre alta, anche quando gli eventi lo hanno travolto intorbidendo la sua uscita di scena dai campi. Ma non la sua persona, in fondo è proprio questo che è sempre apprezzato in lui: essere saldo, affidabile, una certezza su cui contare. Per me, ragazzo, Wilson ha rappresentato questo. E ora che non c’è più, né in campo né in tv, dove di frequente appariva per commentare le partite della sua squadra, ripenso con nostalgia a quante domeniche abbiamo passato insieme. Lui sul prato dell’Olimpico e io a guardarlo. Dopo aver mangiato i panini portati da casa e aver odorato i fumogeni sparati dai tifosi in curva.

Allora allo stadio si andava ore prima della partita – in molti, per prendere il posto – e in quelle lunghe attese si parlava con chi era vicino, si parlava della partita che si sarebbe vista, ci si lasciava sprofondare in una sospensione temporale lunga 105 minuti – due tempi da 45 minuti inframmezzati da un intervallo. Che nostalgia ripensare a Wilson che al calcio d’inizio si posizionava qualche metro fuori dalla propria area di rigore, con le mani sui fianchi, in attesa che si partisse. Uno sguardo alla panchina e l’altro al portiere, dietro di lui.

Allo stadio non vado quasi più, anche se continuo a tifare per la squadra nella quale ha giocato tanti anni Wilson, che continuo a vedere davanti alla sua area di rigore, in attesa del calcio d’inizio. E poi pronto a contrastare la punta avversaria, a testa alta. Ricordarlo così mi fa meno male. Forse.

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