Come la Francia non finisce a Parigi e la Germania a Berlino, la Russia non può essere capita a fondo guardando solamente alle dinamiche che caratterizzano i suoi due centri principali, vere e proprie vetrine sul mondo, Mosca e San Pietroburgo. Anche la sua infinita e spesso ignorata provincia conta, ma, come sottolineato da Eleonora Tafuro Ambrosetti, la distanza tra centro e periferia non è l’unico elemento da tenere in considerazione
Fino a qualche settimana fa praticamente nessun analista si sarebbe spinto a prevedere l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e lo scoppio di un conflitto di tale entità alle porte d’Europa. Errore frutto dell’imprevedibilità di Putin, certo, ma anche di un problema di percezione che si trascina da decenni, da ben prima della fine dell’Unione Sovietica, quando ancora sul campo si riscontrava la presenza di quegli studiosi che venivano definiti sovietologi. La Russia, un Paese immenso, estremamente composito e di difficile lettura, è infatti di frequente ridotta a una narrazione che ne appiattisce le grandi diversità interne. Diversità che si riscontrano sia a livello di élite politica che, soprattutto, a livello di opinione pubblica e di geografia umana.
Come la Francia non finisce a Parigi e la Germania a Berlino, la Russia non può essere capita a fondo guardando solamente alle dinamiche che caratterizzano i suoi due centri principali, vere e proprie vetrine sul mondo, Mosca e San Pietroburgo. Anche la sua infinita e spesso ignorata provincia conta, ma, come sottolineato da Eleonora Tafuro Ambrosetti, ricercatrice dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) di Milano, la distanza tra centro e periferia non è l’unico elemento da tenere in considerazione: “In Russia possiamo ragionare sulla distanza politica in termini di fratture, ad esempio in termini politici tra liberali e conservatori o tra perdenti e vincitori della fine dell’Urss, e di gap. La distanza tra centro e periferia è un fattore importante, ma non l’unico. Dobbiamo anche guardare al gap generazionale e al divario digitale che restringe la possibilità di accedere a fonti di informazione (online, magari in altre lingue) diverse da quelle ufficiali, dominate ormai sempre di più dal Cremlino”.
Parlando di Cremlino, e quindi di quello che da più di due decenni a questa parte è il suo inquilino, ci si può chiedere se queste differenze siano valide anche relativamente a come si guarda, a livello di opinione pubblica, all’invasione dell’Ucraina. Difficile, infatti, pensare che la popolazione russa stia supportando in maniera compatta il proprio leader, considerando anche i pesanti contraccolpi economici che stanno rendendo sempre più difficile la vita quotidiana dei cittadini del Paese. Un dubbio fugato da Tafuro Ambrosetti, che, infatti, continua: “Le differenze interne, anche di accesso a media indipendenti, pesano molto anche rispetto al conflitto. Vi è un monopolio governativo sull’informazione e sulle narrative sulla guerra che sui media nazionali non può essere nemmeno definita tale. Ma bisogna anche guardare alla diversa vulnerabilità dei russi alle conseguenze economiche delle sanzioni e dell’isolamento internazionale del Paese. Tali conseguenze si abbatteranno ovviamente su tutte e tutti, ma un russo giovane, abituato a viaggiare o che per lavoro ha molti contatti con controparti occidentali (pensiamo a chi è attivo nel mondo degli affari o in quello accademico) sicuramente sentirà gli effetti delle sanzioni in maniera più immediata. Certo, non è però scontato che questa persona incolperà direttamente il suo governo per questa situazione, visto che il Cremlino ha diffuso capillarmente attraverso i media la visione che tutta questa situazione sia il risultato delle politiche russofobiche dell’Occidente”.
Nonostante la macchina della propaganda di Putin stia correndo alla massima velocità garantendogli una presa così forte sulla realtà sociale e politica interna, nei giorni scorsi hanno fatto il giro del mondo le immagini dei (coraggiosi) cittadini russi scesi in piazza per protestare contro l’invasione dell’Ucraina. Putin ha risposto con migliaia di arresti, concentratisi soprattutto nei grandi centri urbani, fattore che potrebbe far pensare che il presidente russo abbia il proprio bacino di consenso soprattutto nella provincia russa, con il centro invece più critico nei suoi confronti. D’altronde si diceva lo stesso anche di Donald Trump, il cui slogan Make America Great Again aveva fatto presa soprattutto nelle aree a forte vocazione industriale e produttiva degli Stati Uniti, lontano dai grattacieli di New York e dai palazzi del potere di Washington. In realtà, secondo Tafuro Ambrosetti, la situazione in Russia è più sfumata: “In generale è vero che si riscontra una maggiore opposizione a Putin nelle grandi città, soprattutto nella parte di Russia che è nel territorio europeo. Tuttavia, non bisogna cadere nella trappola di un’ipersemplificazione. Ad esempio, le proteste di Khabarovsk del 2020 (che si sono trascinate per diversi mesi) hanno visto proprio l’Estremo Oriente Russo, la periferia della Federazione, opporsi a Putin e a Mosca, il centro geografico e politico”.
Non è detto quindi che eventuali proteste contro Putin partano necessariamente dai due principali centri urbani della Federazione, visto che in passato anche la provincia ha avuto la forza di far sentire la sua voce. Esempi simili nello spazio post-sovietico d’altronde non mancano. Anche molto recenti: basti pensare a quanto successo in Kazakistan a inizio anno, con proteste di massa che sono iniziate nella parte occidentale del Paese, lontanissimo dai gangli del potere gestiti dalla nomenclatura kazaca, a causa delle grandissime disparità interne in termini economici e sociali. Le stesse disparità economiche e sociali che le sanzioni comminate alla Russia potrebbero far emergere internamente, facendo vacillare il regime di Putin e rendendo il suo isolamento non più solo internazionale ma anche domestico.