Che bello era stato: 1998, io e una collega siamo invitati a un incontro russo-tedesco di visione artificiale e riconoscimento automatico di forme. Passiamo cinque giorni fitti di conferenze e comunicazioni nei pressi di Monaco. I partecipanti sono quasi tutti tedeschi o ex-sovietici; poi ci siamo noi, un collega di Pisa, una ricercatrice cinese.
Certo, anche nel periodo della guerra fredda c’erano stati contatti: avevo incontrato in Italia singoli ricercatori russi e ungheresi, io stesso ero andato a un convegno a Berlino Est, ma questa occasione è diversa: l’incontro di due potentissime scuole di ricerca è fantastico. Se poi si pensa quanto i temi trattati siano di interesse militare, sembra davvero incredibile che questo improvviso scambio di conoscenze abbia luogo. Potevamo sospettare quanto fossero andati avanti, al di là della cortina di ferro, ma ora è uno tsunami di informazioni.
Sarò romantico, ma mi sentivo all’interno di un evento di quelli che solo sport, arte e scienza possono causare: l’incontro di persone con la stessa passione, che fa dimenticare le differenze di lingua, di storia, di tipo di società. Avevo provato qualcosa del genere quando ero andato a studiare a Warwick, presso quegli inglesi che avevano sconfitto e tenuto prigioniero per anni mio padre, che allora era ancora vivo.
Questo senso di improvvisa fratellanza era ancora più esplicito la sera, nelle passeggiate e nelle chiacchierate tutti insieme. Un amico ucraino mi stracciava a ping pong, i russi tiravano fuori fiumi di vodka; e si cantava insieme, e si parlava di tutto. Io, ufficiale in congedo dell’Esercito Italiano, dicevo ai nuovi amici quanto mi avessero stufato le pallosissime lezioni che avevo dovuto subire sui piani di attacco del Patto di Varsavia; loro, ufficiali in congedo dell’Armata Rossa, ribattevano che ne avevano fin sopra i capelli delle sagome degli aerei Nato che avevano dovuto memorizzare. Uno aveva perfino prestato servizio ai missili intercontinentali. Si parlava delle propagande contrapposte dei due blocchi; un russo mi tradusse una canzoncina dei boy scout in cui si incoraggiava a bombardare gli Americani.
Il mio, il nostro sogno nascosto – ma non troppo – era che insieme le due parti dell’Europa potessero costituire una nuova potenza scientifica, che i nostri scienziati non avessero più bisogno di trovare fortuna negli Stati Uniti, che infine una guerra in Europa fosse definitivamente divenuta impossibile. In questi giorni ho avuto la tentazione di scrivere a qualcuno di quei colleghi russi ma non l’ho fatto: temo un tipo di risposta che possa deprimermi e a rovescio un tipo di risposta che possa metterli nei guai. Ho invece scritto all’amico ucraino; ma non c’è bisogno di riferirvi cosa mi ha scritto lui…