Quante persone può ospitare il nostro sistema di accoglienza? Sono 24mila i profughi arrivati dall’Ucraina, e la cifra sale di ora in ora. Tutto sotto controllo, assicura il Viminale, che ad oggi conta poche centinaia di persone nell’assistenza diretta, mentre la maggior parte si rivolge a parenti e amici già residenti in Italia. Ma “il flusso cresce con eccezionale rapidità da un giorno all’altro, ed è destinato ad accelerare”, ha detto il premier Mario Draghi di fronte alla Camera dei deputati. Perché ormai due milioni di persone hanno lasciato l’Ucraina e, come ha scritto la Commissione europea, il nostro è uno dei paesi “di destinazione tradizionale”. Tradotto in cifre? Diverse stime ipotizzano centinaia di migliaia di arrivi, forse più di mezzo milione. Un’ipotesi, appunto. Che però è bene confrontare con l’attuale sistema di accoglienza e le altre risorse che l’Italia pensa di mettere in campo. E mentre si moltiplicano i tavoli istituzionali e i governatori delle regioni diventano commissari per l’emergenza umanitaria, chi è già del mestiere fa i conti. “Altri 30mila arrivi e inizieremo a riempire tendopoli e caserme, soluzioni costose e di bassissima qualità”, avverte Filippo Miraglia, coordinatore del Tavolo nazionale Asilo e Immigrazione (Tai), che raccoglie 32 associazioni da Amnesty a Emergency, da Save the Children a Action Aid, dalle Acli alla Cgil. Insieme hanno firmato una lettera a Draghi e ai ministeri dell’Interno e del Lavoro, per evitare pericolose distinzioni nell’applicare la protezione umanitaria e per chiedere modifiche al decreto governativo che contiene le prime disposizioni sull’accoglienza. “Le prefetture che chiamano da tutta Italia ci chiedono quanti posti abbiamo, ma senza che ci sia un progetto: si naviga a vista”, riferisce Miraglia. La ragione è banale: abbiamo sempre fatto così, nonostante la legge obblighi l’Italia a una programmazione annuale dell’accoglienza che invece non è mai stata fatta, anche negli anni più difficili, quando invocavamo la solidarietà dell’Europa per ricollocare i migranti. Ma come già in passato e in barba alle regole, anche oggi si punta soprattutto sull’accoglienza straordinaria e meno sul sistema ordinario. “Ci fosse stata già un’organizzazione, nel giro di un mese o due lavoreremmo già sull’allargamento della rete ordinaria esistente”, commenta Miraglia. “E invece aspettiamo ancora di capire se c’è davvero la volontà di allargarla, questa rete, e come si intenda farlo”.
I profughi del conflitto ucraino sono passati da 21.095 a 23.872 in un solo giorno. Viaggiano quasi esclusivamente in auto o in autobus e il 40 percento è minorenne. La frontiera più attraversata rimane quella di Fernetti, a Trieste, al confine con la Slovenia. Pochi quelli che necessitano del nostro sistema di accoglienza, 500 secondo il ministero dell’Interno. Perché in Italia c’è una comunità ucraina di 240mila persone, la cui solidarietà sta assorbendo quasi tutti gli arrivi, per ora. Ma quanto può durare? “Le famiglie che ospitano amici e parenti già riferiscono di situazioni al limite: piccoli nuclei, anche monoreddito, che in casa ne accolgono altre quattro, sei, otto”, spiega Miraglia, che è anche Responsabile Immigrazione dell’Arci, tra le realtà che offrono assistenza e informazioni in queste ore. La questione è centrale. Anzi, preliminare, visto il grande affidamento che le autorità italiane fanno sulla solidarietà dei connazionali ucraini. Solidarietà che fa risparmiare lo Stato, ma che finora non si è previsto di sostenere, come suggerisce il Tavolo nazionale Asilo e Immigrazione, che chiede “un sostegno economico pubblico sulla base di progetti definiti e trasparenti“. E lo fa a ragion veduta: “Come già avvenuto nel caso della crisi umanitaria in Afghanistan dell’estate 2021, se diventa un’opzione con oneri a carico degli ospitanti, l’accoglienza in famiglia comporterà rischi di fallimenti e di generare conflitti”. E in ogni caso può non bastare. Di fronte al Parlamento, Draghi ha condiviso che la prospettiva che abbiamo davanti “non è di breve termine”. Al netto della solidarietà, dunque, quanto sono larghe le spalle del nostro sistema di accoglienza?
Ripartiamo dai numeri. O meglio, da un ordine di grandezza. A fronte di 20mila persone arrivate in appena una settimana, il sistema italiano di accoglienza ospita attualmente meno di 80mila persone. Di queste, circa 50mila trovano posto nei cosiddetti centri di accoglienza straordinaria (Cas), individuati attraverso i bandi delle prefetture per alloggiare velocemente le persone. Meno di 30mila sono invece quelle nei centri ordinari del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), che la legge considera il principale approdo dell’accoglienza pubblica. A differenza dei Cas, il sistema Sai parte dall’iniziativa di enti locali che attivano un progetto di accoglienza in collaborazione con le professionalità del terzo settore. Secondo la legge, non solo il titolare di protezione, ma anche il richiedente “è trasferito, nei limiti dei posti disponibili, nelle strutture del Sistema di accoglienza e integrazione”. Ma su quella disponibilità non si è mai investito a sufficienza, lasciando al palo il modello che meglio garantisce diritti e doveri delle persone accolte. Un approccio che ritorna anche nel decreto governativo del 28 febbraio dedicato all’emergenza ucraina, che finanzia 5mila nuovi posti nei Cas e 3mila nel sistema Sai. “Una scelta non condivisibile [..] finendo per consolidare la già netta dualità del sistema italiano di accoglienza che oggi è profondamente sbilanciato verso i Cas e privo di alcun effettivo piano di svuotamento/assorbimento verso il Sai nonostante la norma”, scrive il Tavolo, chiedendo che il numero dei posti Sai sia almeno pari a quello dei posti Cas, che vanno “effettivamente considerati provvisori”. Visto che la protezione temporanea accordata il 4 marzo dal Consiglio Ue comprende il diritto di accedere al servizio sanitario, all’istruzione pubblica e al mercato del lavoro, garantire ai rifugiati questo accesso sarà fondamentale, anche per evitare che “situazioni di esilio protratto”, come le chiama l’Agenzia Onu per i rifugiati, si trasformino in sacche di disagio e inneschino intolleranza. Per questo, chiede ancora il Tai, vanno previste “procedure maggiormente celeri e flessibili per l’attivazione dei progetti Sai“. Flessibilità che potrebbe essere favorita dalla decretazione dell’emergenza, e che può ridurre a due i sei mesi necessari oggi per un progetto. Un’occasione per organizzare anche la solidale accoglienza “esterna” delle famiglie ucraine o italiane (“già prevista nell’ambito Sai”), che non potrà essere lasciata al caso troppo a lungo.
Nel frattempo i ministeri convocano tavoli e affidano incarichi. Quello degli Affari regionali ha riunito regioni e comuni per avviarne il coordinamento. Dopo aver nominato i governatori delle regioni commissari dell’emergenza, la ministra Mariastella Gelmini ha regalato alla stampa ciò che appare come un controsenso ma più probabilmente è una sintesi azzeccata: “Quello che stiamo cercando di fare è di mettere a sistema questo spontaneismo“. Alla riunione era presente anche la Protezione Civile, che il 4 marzo ha emanato una circolare sull’accoglienza e da giorni è impegnata al fianco di enti locali e prefetture nella ricerca di alloggi per quando i flussi saranno cresciuti. Procedure, anche in deroga, per fare in fretta una conta di tetti, ambienti, letti. Una mappatura dell’assistenza possibile, da non confondere con l’accoglienza, che è un’altra cosa. E sempre nell’attesa di capire i numeri: “Anche alla luce della recente approvazione europea dello status di protezione temporanea, si ragionerà in termini di quote tra Paesi, e per avere idee più precise sui numeri aspettiamo queste decisioni di tipo politico”, ha dichiarato nei giorni scorsi il capo della Protezione Civile, Fabrizio Curcio. Insomma, si aspetta di vedere cosa fa la politica mentre la politica attende di vedere come se la cava la solidarietà. E anche quello di Curcio è più che altro un auspicio, perché l’Unione non ha mai davvero ragionato in tal senso, parlando al massimo di “coordinamento e monitoraggio della capacità di accoglienza”, come dice il Consiglio Ue nel testo che dà l’ok alla direttiva sulla protezione temporanea. Che adesso va recepita con un decreto della Presidenza del Consiglio. Un formalità? Non del tutto. Perché anche l’applicazione della direttiva Ue può cambiare il destino del nostro sistema di accoglienza. A partire, questa volta, dalla gestione amministrativa degli ingressi. E’ questo l’altro tema sul quale il Tavolo Asilo e Immigrazione invita il governo a riflettere. L’accordo sulla protezione temporanea, infatti, è stato trovato superando le ostilità dei paesi di Visegrad, Polonia su tutti, e dell’Austria, che volevano mano libera sulla gestione degli sfollati di nazionalità non ucraina, anche se già soggiornanti di lungo periodo. E tanto è stato loro concesso. Un doppio binario che il Tai invita l’esecutivo a evitare, perché in Ucraina ci sono ben 5 milioni di stranieri. E se una parte anche piccola di queste persone si dirigerà verso l’Italia, e il governo deciderà di non applicare anche a loro la protezione temporanea europea, costringendoli di fatto alla tradizionale richiesta di asilo con tempi lunghi ed esito incerto e impugnabile, il già lento apparato amministrativo andrà al collasso in pochi giorni, e con lui il sistema di asilo. “Un sistema già ingolfato, totalmente inadatto a un’emergenza come questa, come possono raccontare gli Afghani arrivati l’anno scorso”, spiega Miraglia. Per questo il Tai invita a non fare distinzioni tra persone che fuggono dallo stesso conflitto. Perché se ancora non sappiamo quanti profughi raggiungeranno l’Italia nelle prossime settimane o mesi, lo stato dell’arte dell’accoglienza in Italia è sotto gli occhi di tutti.