di Andrea Gligor
11 marzo. Fino a qualche anno fa poteva sembrare una data come tante, che al massimo poteva ricordare che, circa 200 anni fa, Mary Shelley avesse deciso di pubblicare una delle sue più note opere: Frankenstein. Dopo il 2020, questa data ci riporterà alla mente una notizia sinistra e cupa proprio come quelle delle gothic novel: il giorno 11 marzo 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarò e ufficializzò lo stato di pandemia da Covid-19. Sono passati più di 730 giorni da quel momento: in questo arco di tempo molto è successo, e molto non lo è ancora. Ma, per trarre le somme, ci chiediamo: a che punto siamo nella lotta contro il Covid-19? Che effetti ha avuto questo evento di portata globale? E che cosa ci aspettiamo dal futuro?
Cercare di capire a fondo gli effetti sulla realtà di un fenomeno globale così complesso non è una sfida da poco. Ora siamo arrivati a una situazione in cui, grazie alla campagna vaccinale e alle misure di prevenzione prese dai governi, gli effetti del virus non sono più impattanti come lo erano fino a qualche mese fa. Ma solo per i paesi più ricchi.
Il 2022 doveva essere il momento in cui avremmo finalmente messo fine alla pandemia – ma i governi sembrano più inclini a fare la pace con essa, piuttosto che eradicarla. Non dovrebbe essere necessario dire che non si può negoziare con un virus. Non possiamo convivere con il Covid-19 mentre miliardi di persone nel mondo non sono ancora adeguatamente protette dai suoi effetti peggiori e mentre rimane in grado di evolversi in una variante più pericolosa che ci mette tutti in pericolo. L’unico piano nazionale efficace per porre fine alla pandemia è un piano globale per porre fine alla pandemia. Finché i nostri governi non affronteranno questa crisi a livello globale, non riusciranno a proteggere i loro cittadini. Possiamo fermare la prossima variante e porre fine alla pandemia solo se poniamo fine all’apartheid dei vaccini e facciamo i passi necessari per battere il virus ovunque.
Allo stesso tempo, la forbice economica si è allargata incredibilmente: il Covid-19 non ha fatto altro che aumentare il divario di classe. Nei primi due anni di pandemia i dieci uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i loro patrimoni, aumentando le loro entrate al ritmo di 15 mila dollari al secondo. Nello stesso periodo si stima che 163 milioni di persone in più siano state spinte in condizioni di povertà estrema a causa della pandemia. Mentre poche persone vivono nel lusso sfrenato, la maggior parte del mondo non è ancora riuscita ad abituarsi alla nuova normalità, con tutte le difficoltà lavorative, di benessere fisico e psicologico che essa comporta. Ma proprio davanti a queste difficoltà, penso che sia cruciale poter agire per formare comunità più unite.
Dobbiamo riuscire a riscoprire la nostra umanità, il nostro valore più alto e più grande. Sono convinto, come scriveva anche Leopardi, che se ognuno di noi iniziasse a interessarsi della condizione dell’altro e quindi a espandere i propri sentimenti che fino a quel momento sono stati d’amor proprio, si vivrebbe in un mondo molto diverso. Siamo rimasti impantanati nella sterilità della nostra unica prospettiva della realtà. Credo che, alla base dei principali problemi mondiali, ci sia questa mancanza di cooperazione. Lo si può notare anche dalla quasi totale indifferenza dei paesi più ricchi alla condizione dei paesi più poveri e dalle speculazioni finanziarie adottate da pochi, che decidono di lucrare sulle spalle di molti. Tutto questo sistema può essere ricostruito, solamente se però ognuno di noi fa lo sforzo di andare verso l’altro. Se anche solo uno degli anelli di questa catena si rifiutasse di farne parte, però, lo sforzo dei più sarebbe inutile.
Non si parla di un progetto utopico, irrealizzabile e lontanissimo, ma di un ritorno alla nostra umanità. Per questo sono un’attivista. Anche se la nostra società sembra non essere ancora pronta ad agire in un’ottica di cooperazione, penso sia vitale per il futuro di tutti che gli stati si mobilitino nella lotta alle ingiustizie e che nel dialogo internazionale venga adottata l’empatia, intesa come vero principio per la cooperazione. Spesso ci dimentichiamo che dietro al nome di una nazione ci sono delle persone e che dietro ai numeri ci sono delle vite.
Le politiche economiche e la cultura politica e sociale stanno perpetuando e inasprendo il divario tra due estremi, quello dei paesi più ricchi e quello dei paesi più vulnerabili, ma nessuno sarà al sicuro finché non lo saremo tutti. Per questo, nessun paese dovrebbe subire la sorte di essere tagliato fuori dagli scambi di merce salva-vita, come lo sono i vaccini, e misure di supporto alle economie più vulnerabili. Se questo non dovesse accadere c’è il rischio che il virus continui a colpire intere comunità e che i suoi effetti continuino a farsi sentire nell’economia globale, perché la pandemia prospera nella disuguaglianza.
Le domande sul futuro, sulle prossime pandemie e su come verranno affrontate sono uno degli argomenti di principale preoccupazione dal punto di vista internazionale. A causa dell’incredibile quantità di eventi storici a cui siamo stati sottoposti, paura e incertezza sull’avvenire sono sentimenti che ormai fanno parte della nostra società, insieme alla percezione diffusa che questi avvenimenti siano totalmente fuori dal controllo delle nostre istituzioni. Dobbiamo ritrovare noi stessi, unirci, salvaguardare il futuro ed essere previdenti. È necessario agire ora, per poter assicurare un domani di normalità per noi, non per le prossime generazioni ma per noi stessi.