Il professor Alberto Grandi, docente di storia dell'alimentazione all'Università di Parma, porta in dodici puntate i temi dei suoi due libri - Denominazione di Origine Inventata e Parla mentre mangi - e scardina alcune credenze: "L'Italia si è costruita un passato 'mitico' confermando quella teoria dell'invenzione della tradizione forgiata da Hobsbawn nel 1983, secondo cui una società nelle fasi storiche di passaggio tende a inventarsi tradizioni capaci di disegnare un'identità nuova"
“Da oltre quindici anni mi occupo di storia dell’alimentazione e dei mercati alimentari e, in questo lasso di tempo, mi sono progressivamente reso conto di aver alimentato, io stesso, certi miti sul cibo e la cucina italiana che, documenti alla mano, non stavano in piedi. Per questo ho deciso di smontarli“. E per farlo il professor Alberto Grandi, docente di storia dell’alimentazione all’Università di Parma, ha scritto due libri (Denominazione di Origine Inventata e Parla mentre mangi, entrambi editi da Mondadori) e, recentemente, ha condensato tutte le argomentazioni contenute nei due testi in un podcast in dodici puntate, realizzato insieme a Daniele Soffiati e prodotto da Gabriele Beretta, che è in testa alle classifiche di Spotify e nel quale, come in una sorta di menù verità, fa rivelazioni sorprendenti.
In realtà la cucina italiana pre-boom economico era monotona, povera, come poveri erano la maggioranza degli italiani, e basata su pochi elementi. Basta andare indietro ai primi del ‘900 per scoprire che anche sedersi a tavola era un lusso per gran parte degli italiani: “A cavallo della Grande Guerra l’80% degli italiani”, sostiene il docente, “era impiegato nei campi e per lo più mangiavano per terra con scodella e cucchiaio: zuppe di cereali al sud e tanta polenta al nord”. Sul cambiamento del modo di cucinare e di utilizzare gli ingredienti, variarli e combinarli, oltre che sul modo di comportarsi a tavola, hanno influito i processi migratori verso gli Stati Uniti e i ritorni in Patria degli italiani. In America i migranti italiani acquisivano nuove nozioni alimentari, nuovi comportamenti, come quello di sedersi a tavola ad esempio, e poi li portavano con sé una volta tornati in Italia contribuendo ai cambiamenti che sono poi entrati, di fatto, nella nostra tradizione. Prendiamo, ad esempio, la pizza: “Quella che conosciamo e mangiamo anche oggi – precisa Grandi – è nata in America e fino agli anni’50 gran parte degli italiani non la conosceva. Se ne parlava quasi come si trattasse di un piatto esotico. Insomma, vero che la pizza è nata a Napoli ma si trattava di una pizza bianca, senza pomodoro e mozzarella, ricca di aglio e olio, mangiata per strada. Una sorta di street food primordiale”.
Poi arriva quello che gli antropologi americani hanno definito ‘pizza effect’ collegato alle migrazioni: “Gli italiani – prosegue Grandi – imparano a fare la pizza con pomodoro e mozzarella negli Stati Uniti e poi, una volta tornati in Italia, portano con sé questo modo di prepararla che entra a far parte della nostra tradizione”. Significativo un episodio raccontato da un articolo pubblicato su “Usa History” in cui si racconta dei soldati americani che scrivevano lettere a casa lamentandosi del fatto che in Italia non c’erano pizzerie, mentre negli Stati uniti c’erano già. Altra colonna portante della gastronomia italiana è la pasta. Ma anche in questo caso Grandi fa rivelazioni piuttosto sorprendenti e c’entra ancora l’America: “Fino alla fine dell’800 e ai primi del ‘900 – spiega ancora Grandi – il consumo di pasta secca era diffuso soprattutto in Sicilia e a Napoli, mentre al nord si mangiava altro, la polenta ad esempio. Poi la povertà ha accelerato i fenomeni migratori e molti italiani del nord sono emigrati negli Stati Uniti dove sono entrati in contatto con connazionali del Sud nelle Little Italy e lì hanno imparato a conoscere la pasta, apprezzandola per il suo gusto e anche per la sua facilità di conservazione e preparazione. Tornati in Italia alcuni di questi emigrati hanno poi diffuso a loro volta la produzione e il consumo della pasta secca anche al nord”.
Ma c’è lo zampino dello zio Sam anche in un piatto considerato italianissimo come gli spaghetti alla carbonara: “Anche in questo caso”, precisa il professor Grandi, “gli americani ci hanno messo del loro. Nella seconda guerra mondiale, infatti, sono i soldati americani a fornire ingredienti come le uova in polvere e il bacon, praticamente sconosciuti e introvabili in Italia. Senza dimenticare il fatto che da quando nasce, negli anni’50, e fino agli anni ’80 l’unico ingrediente fisso della carbonara era la cipolla. Se la metti oggi commetti un’eresia gastronomica”. Curioso, parlando sempre di pasta, che il regime fascista non l’amasse: “Secondo i fascisti”, dice ancora Grandi, ” si trattava di un piatto che appesantiva, provocava sonnolenza, rammolliva e non andava bene per un popolo guerriero. Inoltre, veniva percepito come un piatto d’importazione, un’americanata”. Da ultimo, parliamo di un’altra eccellenza italiana come il Parmigiano: “Il famigerato ‘parmesan’ che da noi in Italia è quasi demonizzato, in realtà ha una sua storia che inizia, in America, negli anni 20 e 30 del 1900 grazie a produttori dai cognomi italiani che lo producevano in caseifici del Wisconsin. E lo producevano come si produceva in Italia in quegli anni il Parmigiano, dandogli un nome assonante rispetto ai nobili parenti italiani per motivi di marketing interno. Il motivo per cui dico che il vero parmigiano si fa nel Wisconsin è dovuto al fatto che, mentre i metodi di lavorazione e produzione del Parmigiano e del Grana Padano in Italia sono cambiati e migliorati, nel Wisconsin il Parmesan si produce ancora come si faceva nei primi anni del 1900. Per cui se vogliamo sapere che sapore aveva il Parmigiano delle origini dobbiamo andare nel Wisconsin”. Il podcast Doi – Denominazione di origine inventata è disponibile su Spotify e Apple Podcast.