In quei giorni, oltre alle esplosioni che continuavano incessanti nella Zona, quel luogo che per un timore viscerale Eržan si ostinava a non nominare, ad assillarlo c’era un’unica preoccupazione: da che parte si sarebbe schierato l’americano Dean Reed nel caso fosse scoppiata la Terza guerra mondiale? Assistendo alle interminabili discussioni tra zio Ŝaken e il nonno sul rischio di un terzo conflitto globale, la notte, nei suoi incubi ricorrenti, vedeva stormi di aeroplanini argentei che si trasformavano in aquile d’acciaio e piombavano su di lui come su un volpacchiotto. Eržan fuggiva attraverso la steppa in cerca di un rifugio, senza riuscire a trovarlo, per allontanarsi da quel cielo che si oscurava e rimbombava mentre un nuovo sole si levava su un orizzonte ormai nero, simile a un fungo, e sovrastava le distese della steppa.
La vita di Eržan è segnata dall’educazione rigida imposta dal nonno, dall’amore per una vicina di casa e per la musica. Inizierà a suonare un dombro e poi il violino, grazie al quale riuscirà a raggiungere uno stato di armonia con se stesso e potrà conoscere la celebrità esibendosi davanti a tutta la scuola. Su tutto questo aleggia l’ombra nefasta della Zona. Esplosioni all’orizzonte. Esplosioni misteriose che disseminano nel vento radiazioni devastanti, mentre gli abitanti della steppa ignorano le conseguenze che queste possono avere sulla loro salute. Lo stesso Eržan, dopo essersi tuffato nell’acqua azzurra e invitante del lago, i cui fondali sono intrisi di scorie radioattive, pagherà con il blocco della crescita la sua ingenuità. E non serviranno rituali di gente un tempo nomade o altre credenze rurali a farlo diventare fisicamente grande: Eržan rimane bambino. Un uomo bambino.
Grazie a una prosa semplice e delicata Hamid Ismailov racconta una storia commovente che si immerge negli orrori della Guerra Fredda e, in generale, di tutti i periodi storici che vedono la follia umana prendere il sopravvento, ma è anche una narrazione di sopravvivenza e speranza, nonostante tutto e tutti.
Non ci sono ancora così tanti cadaveri come un paio di giorni fa, ma continuano ad arrivarne trasportati dalla corrente. Davanti a me, i soldati cercano di spingere giù tra le chiatte qualcosa di bluastro e gonfio con lunghi bastoni di bambù. Ero lì con un ufficiale del distaccamento Anisimov che ha uno strano cognome, Ubri. È arrivato nella città quando era ancora intatta e adesso non fa che affliggersi guardando in cosa è stata trasformata Tianjin durante l’assedio.
Un libro di nostalgia e di assenza di contatto, dentro il quale il punto di vista ottico e quello psicologico si mischiano continuamente. Nonostante il romanzo epistolare non sia più molto utilizzato, Punto di fuga alla sua uscita nel 2010 ebbe molto successo, tanto da essere tradotto in moltissime lingue. Una delle opere più incisive dell’autore moscovita, capace di raccontare il sentimento come concetto universale e, al contempo, privato.