di Gianluigi Perrone*
Putin invade l’Ucraina. Qualche giorno dopo una scritta in rosso compare sulla porta d’ingresso dell’Istituto di Cultura Russa a Pechino. “Andate a farvi fottere!”. Quel messaggio suona immediatamente come una minaccia. Una minaccia molto pericolosa. In quell’Istituto, durante il weekend, si riuniscono diversi bambini, figli delle numerose famiglie russe, ucraine, moldave, georgiane che vivono nella capitale cinese. Molti sono di coppie miste, con genitori francesi, americani, italiani. Alcuni sono figli di genitori misti ucraini e russi, ma per loro fino a oggi non faceva differenza. Quella scritta suona come un monito inquietante: colpiremo anche gli innocenti.
La Cina non è solo un alleato strategico, politico e economico della Russia, ma è anche il paese dove, sin dai tempi dell’ex-Unione Sovietica, le famiglie inviavano i figli a studiare, quei figli ai quali volevano dare un destino internazionale. Non avendo possibilità di raggiungere l’Europa o gli Stati Uniti, il mondo occidentale in generale, la Cina è sempre stata un’alternativa preziosa agli altrimenti invalicabili confini di Madre Russia.
La comunità dell’ex Unione Sovietica qui ha un ruolo attivo e importante. Russi, ucraini e cittadini dai territori limitrofi vivono come un sol popolo nella comunità expat ma anche più amalgamata a quella cinese rispetto ad altri, ed è evidente che abbiano una corsia preferenziale a livello commerciale. Negli anni del boom economico cinese, quando gente da ogni parte del mondo è corsa a tentare il business nelle principali città del Grande Drago, Pechino, Shanghai, Shenzhen, qui gli slavi hanno trovato il melting pot internazionale del quale sentono di essere stati privati durante la Guerra Fredda.
Questo fino a quel giorno di febbraio.
Le prima avvisaglie di ciò che succede vengono proprio da conoscenti in Ucraina. Foto dalle finestre delle loro case con colonne di fumo che invadono il cielo. Per chiunque conosca il pericolo della guerra nucleare è sgomento. Per i cittadini russi è paura ma anche una vecchia conoscenza che credevano andata per sempre: la vergogna. Quel senso di colpa di chi è accusato di un crimine pur se innocente, senza averlo deciso, senza averne vantaggi ma solo conseguenze, un disagio che non può essere espresso pubblicamente, perché la pena può essere la galera per sé o la rovina per i propri familiari. Madri slave che si cercano, si chiamano, per quella scritta rossa sulla porta dell’Istituto, e solo per cercare di poter dare conforto. Gente che ha mangiato fino al giorno prima nello stesso piatto.
Adesso l’armonia si è spezzata. L’amara sorpresa. I cittadini ucraini non vogliono più aver nulla a che fare con i russi. Non vogliono ascoltare le loro condoglianze. La guerra divide i fratelli e le sorelle. La guerra stimola gli istinti più rabbiosi. I cittadini ucraini hanno tutto il diritto di dire “non vogliamo ascoltare. Vogliamo urlare tutto il nostro odio verso il nemico che ci invade”.
Ecco una comunità che rispettava quell’ideale di cui parla Putin nella sua propaganda, di un unico popolo russo, che si infrange anche dove non poteva essere infranto. Il leader dice di voler unire i due popoli ma di fatto li ha immediatamente, irrimediabilmente divisi.
Per gli europei è incomprensibile capire come sia possibile che gli ucraini non possano incontrare amici russi, pena essere isolati o peggio dalla propria comunità. Sono due popolazioni che hanno il sangue nel sangue, e in un momento di così aspre tensioni è facile che le città cinesi possano diventare teatro di ritorsioni.
Il governo cinese manda quindi alle ambasciate russe e ucraine a Pechino un monito. La richiesta di tenere sotto controllo i propri cittadini perché ogni tipo di istigazione all’odio razziale verrà punita. Il contraltare, l’unico forse, all’atteggiamento oltranzista che comunica l’Occidente, dove la cancel culture sembra ora essere un banco di prova per eliminare dalla memoria la cultura russa.
A Pechino gli equilibri sembrano rovesciati. Il governo si mostra immediatamente pacifista, nel tentativo pragmatico e non disinteressato di mediare tra Ucraina e Russia, che non si possono permettere di perdere il favore del Presidente Xi. L’opinione pubblica invece, pur condannando la guerra, sembra supportare, almeno in parte, le decisioni di Putin. Perché amano la morte e la guerra? Non c’è nessun popolo che culturalmente sia refrattario al conflitto bellico come la Cina. Tuttavia la narrazione di questa faccenda in Cina è completamente scevra da filtri propagandistici. I cinesi lo sanno bene cos’è la propaganda, e sia a Est che a Ovest, sanno bene come riconoscere il fumo dall’arrosto. Una virtù maturata negli anni, anzi nei millenni. Una virtù che l’Occidente ha perso. Quindi i cittadini cinesi conoscono le vere identità delle parti coinvolte, come sanno bene che esse sono più di due. I cittadini cinesi sanno bene cosa vuol dire essere isolati, sanno bene che se ci sarà una negoziazione pacifica, quella avverrà per tramite della Cina, e sono consapevoli che c’è già chi spera di far credere al mondo che anche i loro cugini taiwanesi hanno il desiderio di far finta di essere occidentali.
Il governo è stato chiaro: non ci saranno spargimenti di sangue attraverso la Cina, e si indaghi su qualsiasi tentativo di aggressione. E in particolare la scritta sull’Istituto di Cultura russo, che sembra un’implicita minaccia a bambini nati semplicemente come cittadini del mondo, è un atto da condannare. La verità di quell’atto di vandalismo è ancora più scioccante e triste. Le telecamere a circuito chiuso rivelano che il colpevole è un adolescente russo. Un ragazzino cresciuto con quel sogno di globalizzazione e che adesso sa essersi infranto per sempre. Sa che, per via della sua nazionalità, sarà rifiutato per sempre, che nella sua vita sarà bollato come il “cattivo” per antonomasia, senza aver fatto e voluto nulla.
Il suo grido di disapprovazione, scritto in cirillico a grandi lettere rosse, è indirizzata direttamente al colpevole di tutto ciò.
*CEO di Polyhedron VR Studio a Pechino