Quando venne avvertito dell’omicidio di Salvo Lima, Giovanni Falcone commentò: “Ora può succedere di tutto”.
Non si sbagliò nemmeno in quella circostanza Giovanni Falcone, che intuì subito la portata di quel fatto: fu l’inizio della vendetta di Cosa Nostra devastata dalla sentenza di Cassazione del 30 gennaio 1992, che confermando l’impianto accusatorio del maxi processo sgretolava il mito della impunità di Cosa Nostra e svelava anche il logoramento definitivo del rapporto tra Cosa Nostra e un pezzo di Stato.
In quella stessa tragica estate il Parlamento aggiunse al Codice Penale l’art. 416 ter per punire espressamente la relazione tra mafioso e politico nel momento delle elezioni: il decreto legge dell’8 giugno veniva convertito in legge il 7 agosto, con l’Italia tramortita dalle stragi di Capaci e via D’Amelio. Il reato di voto di scambio politico-mafioso veniva “infilato” nel Codice Penale esattamente dieci anni dopo che il Parlamento a fatica ci aveva infilato il 416 bis, anche in quella circostanza soltanto dopo i brutali assassini di Pio La Torre e di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Una norma importante per stigmatizzare l’essenza stessa della pericolosità delle mafie: l’eversione dell’ordine democratico attraverso il sistematico inquinamento dell’esercizio democratico del potere, a cominciare dalla selezione dei rappresentanti del popolo sovrano.
Una norma intelligente perché capace di isolare, tra le condotte che alimentano la forza delle mafie, quella più odiosa, cioè quella del politico che pur di vincere ne evoca e ne legittima il potere. Una norma scritta in maniera poco efficace (sarebbe interessante recuperare gli atti parlamentari, ma non è questa la sede) chissà se per superficialità, fretta o malizia – soprattutto perché la consumazione del reato avrebbe preteso di essere dimostrata dalla prova della “dazione di denaro”. Ora quale politico può essere così scellerato da mettere in una busta il prezzo del servizio mafioso di procacciamento di voti? E infatti dal 1992 pochi furono quelli condannati per 416 ter!
A partire dal 2013 e fino al 2019 l’articolo è stato sottoposto ad una profonda revisione parlamentare attraverso successivi interventi che lo hanno modificato significativamente, rendendolo complessivamente più adeguato. Di questo lungo travaglio politico mi sono trovato ad essere uno dei protagonisti, essendo stato il relatore del provvedimento per la maggioranza alla Camera tra il 2013 e il 2017. Le pressioni per fare della riforma un radicale annacquamento furono formidabili e credo non meno impressionanti furono le tensioni che portarono alle (per ora definitive) modifiche intervenute nella XVIII Legislatura ed entrate in vigore a giugno del 2019.
Non è questa la sede per ripercorrere i motivi e gli effetti dei vari interventi; c’è però lo spazio per chiarire ad ogni buon conto almeno due caratteristiche della fattispecie che dal 2014 nessuno ha più rimesso in discussione. La prima: l’allagamento della “platea” delle condotte penalmente rilevanti, ovvero il reato si intende commesso non soltanto quando in cambio dei voti viene dato del denaro, ma quando in cambio dei voti il politico offre qualsiasi tipo di utilità al mafioso. La seconda è altrettanto importante e consiste nella anticipazione della consumazione del reato al momento dello “scambio delle promesse”, cioè al momento dell’accordo tra le parti. In altri termini: provare la successiva dazione di denaro o la effettiva realizzazione di altre utilità può soltanto spingere più in avanti il momento della conclusione della condotta criminale (soprattutto a beneficio del calcolo della prescrizione), ma il reato è perfettamente posto in essere quando le parti si accordano nella consapevolezza del reciproco ruolo ricoperto in commedia.
Ultima considerazione: nell’accordo tra le parti è sempre chiaro cosa debba fare il mafioso, meno chiaro cosa dovrà fare il politico – soprattutto se eletto anche grazie ai voti del mafioso. Il concetto di “altre utilità” è ampio, reso ancora più ampio dal concetto di “disponibilità” introdotto a giugno del 2019: sta sicuramente alla sagacia di magistrati e investigatori coglierne la portata, declinando la norma astratta e generale dentro ai fatti concreti e sorprendenti nei quali ci si imbatte. Su questo ultimo punto mi permetto, in conclusione, di sottoporre al pubblico giudizio una modesta ipotesi: qualora il politico che beneficia dell’accordo elettorale fosse un noto parente del noto mafioso che si attiva per la sua campagna elettorale, l’utilità conseguente alla sua elezione non sarebbe dimostrata “in re ipsa”, dal fatto stesso che il cognome della nota famiglia mafiosa riceverebbe il blasone di uno scranno istituzionale? Una sorta di complemento oggetto interno, tipo “ho sognato un sogno”, che tradotto nell’onirico mafioso potrebbe suonare: “Ho sognato mio cugino sindaco!”. E forse non è soltanto la trama di un film di Cetto Laqualunque.