Compliance, questa sconosciuta nelle piccole imprese. Un termine, difficile da pronunciare in inglese (ne ho sentite delle belle!), che in italiano significa conformità e che potrebbe essere spiegato con il principio, tanto ovvio quanto abusato, che in azienda, come nella vita, prevenire è meglio che curare. La compliance aziendale è intesa, quindi, come la conformità di tutte le attività aziendali alle procedure, regolamenti, disposizioni di legge e codici di condotta.

Lo scopo principale della compliance mira a proteggere l’azienda dai rischi di carattere reputazionale e, ancor più, legale. Proprio l’aspetto legale è stato oggetto di particolare attenzione da parte del legislatore, che nel 2001 ha introdotto il Decreto Legislativo n. 231, preordinato a regolare la responsabilità penale, ancorché definita “amministrativa”, degli enti per fatto commesso da soggetti (operai, quadri, dirigenti) che operano per nome e per conto di questi ultimi. Appare dunque indispensabile soffermarsi sul principio ispiratore della norma: la colpa dell’organizzazione da cui scaturisce inevitabilmente un dovere della stessa, proprio al fine di prevenire la commissione degli illeciti.

Risulta allora logico che l’impresa risponderà del reato se non prova di aver adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenirne la commissione. A sostegno di quanto affermato e per facilitare la comprensione al lettore, pare ora opportuno riportare la vicenda relativa a un infortunio verificatosi in un impianto di selezione di rifiuti. Un episodio sicuramente non paragonabile alla tragedia di Torino che, qualche mese fa, ha prodotto la morte sul lavoro di tre operai per il crollo di una gru ma che fa riflettere sulla superficialità di approccio da parte del piccolo imprenditore a una problematica di gestione molto sottovalutata fino a quando non scoppia poi il patatrac.

In particolare, nel caso di specie, un autista che era sceso dal proprio mezzo, mentre rimuoveva il telo dal proprio camion per scaricare i rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata, veniva colpito dal muletto condotto da un altro dipendente della società e riportava la frattura della tibia e del piede sinistro. In conseguenza di tale infortunio, al datore di lavoro è stato contestato il reato di lesioni colpose e, in particolare, la colpa è stata individuata nella mancata predisposizione di una viabilità sicura nel piazzale esterno. Dall’imputazione della persona fisica (imprenditore), è discesa la contestazione alla persona giuridica (impresa) dell’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies D.Lgs. 231 del 2001, per avere la società tratto un interesse o un vantaggio dalle condotte colpose poste in essere dal datore di lavoro.

Secondo la più consolidata giurisprudenza, comunque non uniforme sul territorio nazionale, per interesse si intende “l’intento del colpevole di arrecare un beneficio alla società mediante la commissione del reato; diversamente, per vantaggio i giudici di legittimità si sono riferiti all’effettiva realizzazione di un profitto in capo all’impresa quale conseguenza della violazione delle regole cautelari antinfortunistiche”.

Ora vi starete chiedendo: in cosa consistono, praticamente, i benefici sottesi a tali reati? Secondo quanto sostenuto dalla Suprema Corte, il tornaconto si sostanzierebbe in una riduzione di costi e in un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto, che in ambito prevenzionistico si traducono nella mancata adozione delle cautele di sicurezza ritenute necessarie. Rapportandoci al caso di specie, quindi, la colpa del datore di lavoro e, conseguentemente, della società si ravvisa nella mancata predisposizione della segnaletica che separasse la circolazione pedonale da quella dei mezzi e di percorsi obbligati per i veicoli e pertanto nell’assenza di un modello di organizzazione, gestione e controllo in grado di prescrivere a dipendenti e dirigenti le procedure aziendali atte ad evitare l’infortunio.

Si potrebbe quindi pensare che ogniqualvolta l’azienda non adotti qualsivoglia misura preventiva, magari perché ritenuta troppo costosa per le casse dell’impresa, si configurerebbe una responsabilità penale non solo per l’imprenditore ma anche e soprattutto per l’azienda stessa? Per fortuna così non è! Il legislatore (a monte) e i giudici (a valle) non hanno potuto non considerare la realtà del tessuto produttivo italiano, composto prevalentemente da micro, piccole e medie imprese, che si trovano (almeno quelle più virtuose) in un limbo dantesco in cui da un lato pende il rischio di incorrere in una responsabilità penale e dall’altro in una spesa non sostenibile.

Qual è il criterio adottato dalla giurisprudenza prevalente per stabilire che si tratta di un investimento sostenibile anche per una piccola impresa? Semplice, l’esiguità del risparmio. In altri termini, qualora il giudice accerti l’esiguità del risparmio di spesa derivante dalla mancata attuazione di tutte le cautele necessarie previste dal modello organizzativo per evitare l’infortunio, per poter riconoscere la sussistenza dell’interesse o del vantaggio occorrerà la prova del fatto che le predette misure preventive non siano state adottate per effetto della volontà della società di perseguire una politica di impresa che privilegi la produzione e il profitto alla salute e alla sicurezza dei lavoratori, ammesso che la prima non sia diretta conseguenza della seconda.

Difatti, come posso garantire una crescita costante alla mia impresa se dapprima non tutelo la continuità produttiva della stessa? Per aver evitato di investire poche migliaia di euro (esiguità del risparmio) per la adozione di un modello organizzativo ex d.lgs 231/2001, quella impresa di smaltimento dei rifiuti si è ritrovata a doverne sborsare, tra spese legali e sanzioni, decine di migliaia. Forse è meglio “prevenire” prima di arrivare al punto in cui potrebbe seriamente compromettersi la continuità aziendale. A Napoli si dice che “‘O sparagno nun è maje guadagno”: significa che risparmiare non è un bell’affare. E lo dicono i giudici!

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