L’Italia delle trame e dei tentati colpi di Stato bisogna ancora capirla fino in fondo, come prova a fare Francesco M. Biscione con il suo nuovo, importante saggio dal titolo Dal Golpe alla P2, in libreria con l’editore Castelvecchi. Lo studioso romano non ama cavalcare praterie già esplorate: meglio, esplora sempre nuove vie. Lo fa anche con questo lavoro che entra nella carne viva della strategia della tensione, per portarla fuori dalla formula e dargli connotati più precisi, un percorso impervio, duro, come si avverte dal ritmo della scrittura, serrato, stretto, senza respiro. Quasi a rincorrere uno dopo l’altro fatti e protagonisti di una lunga stagione che ha portato bombe, caos e uno Stato ‘introvabile’. Uno stile forse dettato dall’urgenza di riversare nero su bianco l’elaborazione di tanti anni di lavoro da cui ci si vuole separare, per andare oltre. Consegnato ai lettori, il saggio arricchisce e innova la consapevolezza sulle trame nere tentate dal blocco reazionario che intorno alla fine degli anni ’60 aprì la stagione militare della gestione del conflitto sociale. Biscione parte dalla natura dei tentativi golpisti per capire come poi compaia sulla scena la P2 a fagocitare tutto: è un nodo essenziale e alquanto trascurato con cui finalmente bisogna fare i conti.
I tentati golpe: l’insieme delle forze reazionarie ha costituito un movimento frammentato e spesso poco comunicante sostenuto da settori delle Forze armate nelle quali non pochi reparti, soprattutto di alta specializzazione, avevano al vertice ufficiali orientati in senso golpista o neofascista: talvolta quel sentimento era diffuso nei gradi inferiori e nella truppa. Tra i Carabinieri vi era l’anomalia della divisione Pastrengo, per il numero di effettivi, la ramificazione sul territorio, il ventaglio delle specialità, la contiguità con gli uffici giudiziari impegnati nelle indagini sull’eversione e sul terrorismo: la contiguità raccontata tra i vertici degli apparati di sicurezza e l’eversione nera portò scompiglio per la sua capacità depistante ma non al golpe.
Stragismo e golpismo si rincorsero senza mai trovarsi, brutalmente perché privi del necessario sostegno internazionale. Ai primi del 1974 il movimento golpista si riduceva a poca cosa, dice Biscione all’inizio del capitolo 4 (Il Sid, Andreotti e i residui del golpismo), spingendosi a parlare del “fantasma del golpismo”. Spiega che “Quando la prova di forza è più volte minacciata e quindi rinviata, appare estremamente difficile, per motivi intrinseci alla pratica golpista, valutare le potenzialità del movimento”. Non che il lavorio delle forze golpiste non abbia avuto esito. Secondo Biscione è difficile valutare quanto il golpismo sia stato una minaccia per le istituzioni e la democrazia e quanto, dal 1973, abbia invece costituito un alibi per altre forze che abbiano enfatizzato la pericolosità per promuovere altri disegni, come se il golpe e il suo spettro (potremmo dire il golpe reale e quello percepito) fossero – scrive Biscione – un’unica cosa. È pur vero che i due piani si sovrappongono.
Il risultato fu la paralisi totale del sistema politico e il contenimento dei conflitti sociali, ma non solo. Il saggio ci spiega che dalla pancia del golpismo ha preso forza quel fenomeno piduista nato già a metà degli anni 60 e che dopo il 1974 riesce a dare un obiettivo al movimento eversivo: non più il golpe – agli americani non piaceva – ma uno scardinamento del progetto costituzionale-repubblicano, conseguendo su questo terreno un successo non completo ma certamente ampio. È vero, la P2 fu questo, ereditò il potenziale di violenza delle stragi e dei golpe tentati e mai realizzati per reclutare buona parte della classe dirigente, consapevole o no (diverse persone, diremmo tante, dissero di essere state iscritte alla loggia di Gelli a loro insaputa); e inquinò le istituzioni, sferrando il colpo mortale alla Repubblica: la indiretta partecipazione alla gestione del delitto di Aldo Moro. Biscione rende il senso di quel nodo – l’ingresso della P2 nello Stato – con un efficace paragone storico: avvenne cioè, mutatis mutantis, come ai tempi del governo Facta e durante la crisi Matteotti, quando lo squadrismo fu usato da Mussolini, che non aveva le illusioni rivoluzionarie che alimentavano quel movimento, per potersi presentare come mediatore, in una posizione in un certo senso arbitrale.
L’uomo della grande mediazione non poté che essere lui, Giulio il Grande. Naturalmente nessuna responsabilità per nessuno. In quel silenzio che ha avvolto l’operazione e in quella impunità vi è il collasso delle forze progressiste e in definitiva della democrazia. Biscione dice di aver scritto senza gioia questo bel saggio e non perché non sia appassionato: ma perché fatalmente è la storia di una sconfitta. Ha ragione, mai credere a chi dice: ‘in fin dei conti loro hanno perso, la democrazia ha vinto’.