Olena e Mykola Tsebryk erano una coppia di giovani sposi, lei diciottenne, lui ventenne, quando salirono su un pullman, 2200 chilometri, 26 ore stipati come carne umana in scatola. Il viaggio della speranza li portò a Napoli, si lasciavano alle spalle un paese che aveva ottenuto l’indipendenza il 24 agosto del ’91, ma in poco più di dieci anni era cresciuta sola la disoccupazione e la corruzione. “Nel 2002 l’Ucraina aveva 52 milioni di abitanti. In dieci anni c’è stato il grande esodo e la popolazione era scesa a 28 milioni, tutti a cercare lavoro altrove, mio marito si è messo a fare l’imbianchino, io la domestica”. Lei diplomata all’Istituto Tecnico, lui, laurea in ingegneria e costruzione all’Università di Odessa, la Napoli d’Oriente. Me lo ricorda Erri De Luca che nella città lambita dal Mar Morto non ha mai messo piede ma immagina lo stesso lungomare: “Affacciato sul Mediterraneo, il mare più letterario dell’umanità. E ormeggiato al porto di Odessa Di Capua al pianoforte scandiva le note di 0’sole mio, la leggendaria canzone”. Non lo sapevano Olena e Mykola, non si aspettavano che la città, un inno alla bellezza, li avrebbe accolti a insulti, sputi e bestemmie. “A noi ragazze i lazzari dei quartieri ci chiamavano puttane. Non parlavo una parola d’italiano, è stata la prima che ho imparato – rammenta Olena- Dormivamo in dodici in una stanza, un solo bagno. I nostri sacrifici servivano a far studiare il nostro unico figlio, oggi neo/laureato in economia aziendale alla Federico II, e a pagare il mutuo per una casa. Abbiamo resistito, con il cambio generazionale i rapporti con i locali sono migliorati, oggi ci rispettano”. La casa dei loro sogni l’hanno comprata, 77 metri quadrati per 450 euro al metro quadrato. Prima della guerra ne valeva 750, adesso chissà… A Napoli la comunità ucraina di 25 mila anime è forte e compatta. Fanno pacchi su pacchi, mandano metà dei loro stipendi ai parenti che sono rimasti e a quelli che sono scappati. Altro dramma, da 10 anni il servizio militare non è più obbligatorio. Mentre la Russia è militarizzata anche nel Dna. “Al nostro esercito manca un’ossatura, per questo si sono arruolati tanti civili”. E poi l’appello disperato di mandare forze aree per resistere. “Non abbiamo aerei, né piloti”. Anche la cultura si mobilita a favore dei profughi di guerra arrivati al Consolato Generale dell’ Ucraina di Napoli. Il Direttore Generale del Teatro San Carlo, Emmanuela Spedaliere (“Popolo a noi particolarmente vicino e che a Napoli ha una delle sue più grandi comunità in Europa. Il Teatro come luogo d’arte è per definizione un crocevia di culture che si incontrano, presidio di pace e fraternità” ) ha devoluto gli incassi del superbo balletto “I Maestri del XX secolo”. George Balanchine e Ciaikovskij, due miti russi, un pas à deux a favore degli ucraini. Il fato si traveste da destino. Raccolta fondi anche del Presidente del Festival Barocco Napoletano, Massimiliano Cerrito, in occasione della mise en scene del Festino del giovedì grasso, nella sala del monumentale Toro Farnese al Museo Archeologico Napoletano. Il toro preso per le corna è un rimando a Putin e alle sue “matrioske”.
Illustrazione di Guido Ciompi
FB: pagina di Januaria Piromallo