Papa Francesco ha perso la pazienza con Putin. “Davanti alla barbarie dell’uccisione di bambini, di innocenti e di civili inermi – ha scandito all’Angelus domenica – non ci sono ragioni strategiche che tengano: c’è solo da cessare l’inaccettabile aggressione armata, prima che riduca le città a cimiteri”. Ma il Vaticano guarda anche al di là della guerra in Ucraina. La lunga stagione successiva al crollo del Muro di Berlino è tramontata: è l’ora di un patto fra tutti i protagonisti della scena mondiale.
Nessuno si è accorto, fortunatamente, del lapsus sfuggito a Mario Draghi durante il dibattito in Parlamento, quando è stato autorizzato l’invio di armi all’Ucraina. Perché la favoletta sulla giungla della storia (la violenza del despotismo) che irrompe con l’intento di deturpare il “giardino di pace” in cui vivevamo non è di un personaggio qualsiasi. Robert Kagan, il saggista e politologo statunitense citato dal premier, fa parte di quel gruppo di ideologi fanatici che sul finire degli anni Novanta lanciarono il “Progetto per un secolo americano”. Ne faceva parte la crema dei falchi tra cui Donald Rumsfield e Paul Wolfowitz, rispettivamente capo e vicecapo del Pentagono durante la prima presidenza di George W. Bush, e Dick Cheney suo vicepresidente. Ubriachi per il collasso dell’Urss, eccitati dalla vittoria degli Stati Uniti nella guerra fredda, propugnavano l’espansione mondiale del modello di mercato americano e dello schema liberaldemocratico americano e naturalmente della “leadership americana” sul pianeta.
Erano anni in cui imperversava in una parte notevole dell’establishment statunitense un delirio di onnipotenza. Espresso nella convinzione che a Mosca spettasse d’ora in avanti un ruolo minoritario e che nessun altro Stato al mondo potesse sottrarsi all’egemonia degli Usa. E tradottosi, quindi, nella sistematica espansione della Nato nei paesi prima appartenenti al Patto di Varsavia e nello spazio a suo tempo non-allineato della ex Jugoslavia. Ma non bastava. Bisognava mostrare che il modello americano era capace di imporsi anche nel cuore del Medio Oriente e nel centro nevralgico del continente asiatico. E avvenne (con George W. Bush) l’occupazione dell’Afghanistan e l’invasione dell’Iraq. Entrambe le avventure si sono schiantate in un mare di sangue e distruzioni.
Questa fase trentennale è finita e chiunque segua con attenzione le vicende geopolitiche sa anche che non ci sarà più un “secolo” segnato dalla leadership a stelle e strisce. Karol Wojtyla, un pontefice che aveva un senso acuto per la filosofia della storia, lo aveva presentito già nel 1999: in quell’anno – era gennaio – volò a Cuba e poi negli Stati Uniti dove incontrò Bill Clinton. A St. Louis celebrò messa e tenne una singolare omelia, ricordando che i cambiamenti radicali nella politica mondiale aumentavano le responsabilità dell’America. Citò l’episodio biblico di Mosè e del Faraone, il cui esercito finì notoriamente travolto dalle acque del Mar Rosso. Dio disperde i superbi, esclamò Giovanni Paolo, e innalza gli umili.
Il disastro della ritirata dall’Afghanistan ha chiuso dunque un’epoca e l’avventurismo di Putin, con la brutale invasione dell’Ucraina, non è un tentativo di riscrivere la storia del Novecento – come superficialmente è stato sostenuto –bensì una scossa sismica che prelude a un riassestamento complessivo degli equilibri mondiali. Gli Stati, che guardano con allarme e diffidenza alle implicazioni di potere geopolitico che caratterizzano il conflitto in corso tra Nato e Russia (e per questo hanno votato contro o si sono astenuti in sede Onu dal condannare Mosca), rappresentano quasi la metà della popolazione mondiale. Basti solo citare Cina, India, Pakistan oltre a paesi asiatici e africani. Se poi si vuole fare appello alla battaglia tra liberal-democrazie e autocrazie, precise inchieste prodotte negli Stati Uniti registrano che sulla scena planetaria le democrazie sono da anni in regressione. Rappresentano poco più di un quarto della popolazione mondiale. Il che, se stimola a difendere i valori democratici, rappresenta un monito a non pensare di guidare il mondo facendo i maestrini.
Tutti questi problemi sembrano però drammaticamente assenti dal dibattito nelle sedi politiche istituzionali. La discussione in Parlamento è stata finora estremamente povera. Del ruolo specifico che durante la guerra fredda l’Italia ha sempre saputo giocare nei rapporti con Mosca, pur restando saldamente ancorata al patto atlantico, non si vede neanche l’ombra. Nel frangente attuale l’area cattolica appare forse l’unico spazio in cui si riflette sulle implicazioni più ampie della guerra d’Ucraina e si dibatte sul quadro geopolitico complessivo verso cui tendere.
Su Avvenire il sociologo Mauro Magatti sottolinea come sia in corso un “lento e delicatissimo processo di formazione di aree politiche-economiche-culturali omogenee, che cercano di ridefinire il loro posizionamento strategico a livello regionale e globale”. Negli scontri “calcolati” e incalcolabili è ora entrata la dimensione delle ritorsioni economiche planetarie, che lacerando l’interdipendenza globale rendono molto difficile a qualunque attore calcolare la conseguenza delle proprie iniziative.
Oltre a Putin e ai suoi disegni neo-imperiali ci sono le pretese della Cina su Taiwan, le ambizioni della Turchia, il nuovo ruolo dell’India e la stessa crescita della Nato. L’alternativa ai conflitti, spiega Magatti, è la “ricerca di composizioni che possono nascere solo attraverso l’ascolto e il dialogo”. Perché è importante sapere già ora che in questa guerra d’Ucraina non ci saranno vincitori. Per questo è fondamentale “lavorare a un metodo per comporre le tante fratture che spaccano il mondo”. Serve una visione di ampio respiro nella consapevolezza di tutti gli elementi in gioco. Il disegno neo-imperiale di Putin è da bloccare, non dimenticando al tempo stesso – come ricorda Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio – che la “Russia è stata umiliata e circondata dalla Nato”.
Serve una nuova architettura delle relazioni internazionali. Da questa guerra, insiste lo storico Agostino Giovagnoli, emerge un mondo “quantomeno tripolare (Usa, Russia, Cina) e con l’Occidente non più in una posizione dominante”. Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, invita i leader politici a fare autocritica: “Bisogna riconoscere che non siamo stati capaci di costruire, dopo la caduta del Muro di Berlino, un nuovo sistema di convivenza fra le nazioni, che andasse al di là delle alleanze militari o delle convenienze economiche”. La Santa Sede ritiene che da tutte le parti ci siano “interessi legittimi” da tutelare. Per il mondo cattolico la pace si costruisce lavorando a un patto di convivenza planetario.