Il presidente Aleksandar Vučić ha preferito limitarsi a una condanna verbale dell’operazione militare voluta dal Cremlino, dopo che per anni ha cercato di mantenere buoni rapporti con Vladimir Putin coltivando, al tempo stesso, i legami con l’Unione Europea. I cittadini serbi hanno ricordi molto vividi dei bombardamenti della Nato avvenuti nel 1999, ma l'attaccamento è motivato anche da ragioni energetiche
Nel cuore dei Balcani c’è una nazione che ha scelto di non chiudere lo spazio aereo ai velivoli provenienti dalla Federazione Russa e di non promulgare sanzioni nei confronti di Mosca in seguito all’invasione dell’Ucraina. Si tratta della Serbia che, caso quasi unico in Europa, ha preferito limitarsi a una condanna verbale dell’operazione militare voluta dal Cremlino e al voto favorevole alla risoluzione di condanna dalle Nazioni Unite. Di più proprio non si poteva fare per non tradire quella che è una vera e propria alleanza plurisecolare. Mosca e Belgrado, infatti, condividono l’appartenenza al mondo Ortodosso, l’uso dell’alfabeto cirillico e la medesima posizione su molte questioni di politica internazionale. In primis quella del Kosovo, dove Mosca ha sempre spalleggiato gli interessi serbi e si è opposta al riconoscimento internazionale di Pristina.
I cittadini serbi hanno ricordi molto vividi dei bombardamenti della Nato avvenuti nel 1999 e questo è uno dei fattori principali che ha spinto gli esponenti politici locali a tenersi il più lontano possibile dall’Alleanza Atlantica. Mosca, invece, aveva fornito il proprio sostegno politico (ma non militare) all’allora Federazione di Jugoslavia e la maggior parte degli abitanti ritiene, ancora oggi, che la Russia fosse sempre stata contraria alle sanzioni contro Belgrado. L’attaccamento manifestato è motivato anche da ragioni energetiche. Il gigante russo Gazprom ha il monopolio sul mercato serbo, controlla l’industria petrolifera locale acquistata a prezzo fortemente scontato nel 2008 e ha rafforzato le sue posizioni, come ricordato dall’Osservatorio Balcani e Caucaso, con la costruzione dei gasdotti Balkan Stream e Turkish Stream che conducono all’Europa Centrale.
Nel 2021 ci sono stati alcuni dissapori in merito al prezzo del gas fornito da Mosca a Belgrado, poi risolti con un incontro tra il Capo di Stato serbo Aleksandar Vučić ed il suo omologo Vladimir Putin. Alcuni osservatori ritengono che Putin avrebbe manifestato insofferenza per il tentativo fatto da Vucic di risolvere la disputa del Kosovo con l’aiuto di Donald Trump avvicinandosi all’Occidente e privando la Russia di un asset nei Balcani. La controversia è stata chiusa congelando il prezzo del gas per sei mesi, ma pare che ci siano state delle concessioni da parte di Belgrado. La società statale russa Rosatom dovrebbe costruire una centrale nucleare in Serbia mentre alcune aziende moscovite sono interessate a prendere parte alla costruzione del sistema ferroviario urbano e suburbano di Belgrado.
Aleksandar Vučić ha cercato a lungo di mantenere buoni rapporti con Vladimir Putin coltivando, al tempo stesso, i legami con un’Unione Europea dove sogna di traghettare la Serbia. Belgrado ha presentato la domanda di adesione alla Ue nel 2009, ha ricevuto lo status ufficiale di Paese candidato nel 2012 ed ha iniziato le trattative nel 2014. Gli estenuanti negoziati tra Belgrado e Bruxelles si sono arenati perché l’Unione pretende che sia trovata una soluzione definitiva ai rapporti tra Serbia e Kosovo, che non è mai stato riconosciuto da Belgrado. Non esiste, infatti, una chiara linea di demarcazione che segni il confine tra i due Paesi ma, piuttosto, una frontiera de facto tollerata dalle autorità di entrambi. Bruxelles non può accettare che uno dei suoi membri non sia in grado di controllare i propri confini perché ciò creerebbe problemi all’intera Area Schengen dato che chiunque potrebbe passare dal Kosovo alla Serbia per andare, poi, in altri Paesi dell’Unione.
Vucic si è lamentato in più occasioni del fatto che i leader dell’Unione Europea non abbiano dato al suo Paese e ad altri cinque aspiranti balcanici alcun cronoprogramma per l’adesione ed ha affermato che la Serbia ed i suoi cittadini sono sempre meno entusiasti perché non vedono progressi. Il Presidente, però, ha anche ribadito l’Unione europea è il miglior posto al mondo per vivere e lavorare e che intende proseguire lungo questa strada. Queste parole agrodolci hanno anche un sottinteso che non è piaciuto ad alcuni leader comunitari. Belgrado vuole mantenere rapporti cordiali con Cina e Russia per lasciarsi tutte le opzioni aperte nonostante Bruxelles resti il principale investitore ed il più grande fornitore di aiuti alla Serbia.
Vucic è un uomo politico controverso che ottenne il suo primo incarico di rilevo alla fine degli anni Novanta, quando venne eletto ministro dell’Informazione tra le fila del Partito Radicale. Sotto il suo mandato, come ricorda Il Post, venne approvata una legge che penalizzava tutti i media contrari al regime di Milosevic, che allora era Capo di Stato, e limitava la libertà di stampa. Nel 2012 fondò il Partito Progressista e divenne dapprima vice primo ministro e poi primo ministro dal 2014 abbandonando le posizioni nazionaliste ed estremiste del passato e basando la propria campagna elettorale sul futuro europeista della Serbia. In quell’occasione il Partito Progressista ottenne il 48 per cento dei voti e si riconfermò due anni più tardi alle consultazioni del 2016. Nel 2017 ha vinto le elezioni presidenziali con il 55 per cento dei voti riuscendo ad evitare persino il ballottaggio.
Nel 2020 il partito progressista ha ottenuto il 63 per cento delle preferenze e 187 seggi su 250 in un Parlamento che si è ritrovato privo di opposizioni a causa del boicottaggio del fronte anti-Vucic. Questo schieramento ha denunciato per diverso tempo il controllo assoluto esercitato dal partito di Vucic su ogni aspetto della vita pubblica nazionale ed il processo di decadenza attraversato dalla democrazia serba. Le prossime elezioni parlamentari e presidenziali, che avranno luogo il 3 aprile, vedono il partito del presidente nettamente in testa alle preferenze degli elettori con il 55 per cento delle intenzioni di voto. Una coalizione di quattro partiti dell’opposizione dovrebbe invece conseguire poco più del 13 per cento dei voti.