Il bad boy del balletto internazionale Sergei Polunin non verrà in Italia. Ucraino ma russo per scelta, alla guida di due accademie, una a Sebastopoli e una a Mosca, avrebbe dovuto esibirsi il 9 e 10 aprile al teatro degli Arcimboldi di Milano. Il titolo proposto? “Rasputin”. Presentato a Londra nel 2019 e già rimandato per pandemia sulla piazza milanese, è un balletto che, casualità vuole, parla degli zar. In particolare della vita inquieta e leggendaria di Grigorij Rasputin, il mistico consigliere di Nicola II ultimo zar di Russia.
Il motivo della rinuncia di Polunin? Lesione al tendine d’Achille. Documentata con radiografia e certificato medico. Fino a marzo, rientrato in territorio russo da Dubai dove si era trattenuto con il figlio Mir e la moglie in attesa del secondogenito, danzava. Poi l’incidente. Con la famiglia a Kherson, Ucraina, e la famiglia della moglie in Russia, aveva deciso per il silenzio. Cosa poteva fare?
Su uno dei suoi fan club di Facebook questo è l’ultimo post: “Cari membri. Continueremo ad avere fiducia anche in questi momenti turbolenti. E a rimanere aperti all’amore e alla comprensione”. Poi un invito a spostarsi su Telegram. Fra i commenti colpisce quello di un fan che, informato dell’incidente, fa notare come sia meglio cancellare spettacoli causa infortunio del dover essere cancellati perché russi. Aggiunge ancora che si tratta di un periodo in cui il ballerino potrebbe rimuovere il suo tatuaggio.
Quale tatuaggio? Quello di Vladimir Putin. Che il ballerino si è fatto imprimere anni fa sul corpo. Insieme ad altri tatuaggi che evocano sia la Russia sia l’Ucraina. Di essere filo-putiniano Polunin non ne ha mai fatto segreto. “Il tatuaggio di Putin è stato un segno di ammirazione in un momento politico preciso”, ha raccontato a FQ Magazine. E ancora, in relazione alla sua cittadinanza russa da ucraino e all’annessione della Crimea: “Non credo che la Crimea tornerà mai a essere territorio ucraino. La realtà è questa è va accettata. Non è successo perché la Russia lo ha voluto ma per via di una ribellione interna”, ha spiegato.
Ma da quando si è sposato con la campionessa di pattinaggio russa Elena Il’inych e ha girato il documentario “Sergei” in India, una sorta di viaggio iniziatico, ha deciso di liberarsi di molti suoi tatuaggi ‘pesanti’. Sembrava un’operazione facile. Invece sembrano sparire ma ricompaiono come ombre del passato. Ci vorrà tempo. Nelle scorse settimane il direttore artistico degli Arcimboldi Gianmario Longoni si era mosso per avere una sua dichiarazione sull’invasione russa dell’Ucraina. Con il teatro già sold out per “Rasputin”. La risposta è arrivata sotto forma di certificato medico. L’artista non prenderà nuovi impegni fino al prossimo gennaio. “Allora faremo un gala per la pace il 7 aprile, con ricavato in beneficenza a favore dell’Ucraina”, ha annunciato. E poi, dal 9 all’11 ci sarà il Circus Theatre Elysium ucraino”. Ma il danno economico è grave. Anche se ospitare un ballerino ucraino, russo per scelta e con diverse attività finanziate dal governo russo, avrebbe potuto creare una situazione incandescente. In una città dove già il direttore d’orchestra Valery Gergiev è stato sostituito alla Scala per le sue mancate dichiarazioni contro la guerra. E dove la soprano Anna Netrebko, pubblicamente contro la guerra, si è ritirata dalle scene scaligere “perché non è giusto costringere un artista a dare voce alle proprie opinioni politiche e a denunciare la sua patria”.
Tempi difficili. Anche per lo stesso mentore di Polunin. Il russo Igor Zelensky, già stella del Marinskij di San Pietroburgo e direttore del Bavarian State Ballet, a cui il ministero dell’Arte bavarese ha chiesto il no alla guerra. Il coreografo è consulente della National Cultural Heritage Foundation con sede a Mosca, una fondazione congiunta dei Teatri Bolshoi e Mariinsky e del museo dell’Ermitage. “Se gli artisti si fanno notare per la loro eccessiva vicinanza a Putin, approvano le guerre e forse lavorano anche per il governo russo, allora non può essere senza conseguenze”, questa la posizione. Sempre di più affiora ostilità per i russi. Anche quando, a differenza di Valery Gergiev e Sergei Polunin, non c’è entusiasmo manifesto per Putin. All’Università di Milano le lezioni su Dostoevskij sono state sospese e poi riattivate. Persino nel piccolo teatro genovese Govi si è annullato il terzo “Festival internazionale di musica e letteratura russa”, evento della stagione per celebrare i 200 anni dalla nascita dello scrittore russo. Tra gli organizzatori della serata, il consolato russo.
A Cardiff, nel Regno Unito, la musica di Ciaikovsky è stata esclusa dal programma di concerto. La Bruckner Orchestra Linz si è separata dal primo violino russo. E’ la cancellazione della cultura russa? In un articolo apparso il 2 marzo sul sito di informazione “The Insider”, edizione russa, si riprende ciò che è stato pubblicato su RIA Novosti, agenzia di stampa russa, dall’editorialista Elena Karayeva. L’articolo “L’Occidente cancella la cultura russa” riporta le notizie dell’allontanamento di Gergiev da direttore dell’Orchestra di Monaco e l’assenza di Netrebko dai manifesti della Scala. E recita: “Così, dopo aver tentato di cancellare la Russia economicamente introducendo restrizioni, e poi politicamente, etichettandola come “aggressore”, oltre che come ‘strangolatore di libertà e progresso’, oggi un nuovo ma probabilmente più difficile compito è sull’agenda: la Russia sarà espulsa dallo spazio della cultura mondiale, cancellando costantemente i concerti dei nostri musicisti, cessando di organizzare mostre di artisti russi e persino puntando il dito verso la letteratura russa”. Il riferimento va, fra chi ancora canterebbe di ‘spirito imperiale’, a Leone Tolstoj e al suo ‘Guerra e pace’.
Ma c’è la lettera aperta di studiosi e scienziati russi contro la guerra, del 24 febbraio. Una condanna durissima: “Noi, studiosi, scienziati ed esponenti del giornalismo scientifico russi, esprimiamo una decisa protesta contro le azioni di guerra intraprese dalle forze armate del nostro paese contro i territori dell’Ucraina. Scatenando questa guerra la Russia si è autocondannata a un isolamento internazionale, allo status di paese maledetto”. L’avviso: “Questo significa che noi, studiosi e scienziati, non potremo più svolgere il nostro lavoro come abbiamo fatto finora in quanto la ricerca scientifica è impensabile senza la collaborazione con colleghi stranieri”. E l’appello alla memoria storica: “Fa male riconoscere che il nostro paese, che ha portato un contributo fondamentale alla vittoria sul nazismo, è ora diventato la miccia di una nuova guerra nel continente europeo”.
E in Italia, la comunità intellettuale cosa ne pensa? Il 3 marzo arriva a tutti i russisti italiani la lettera aperta di Rita Giuliani dell’università La sapienza di Roma. “L’aggressione della Russia all’Ucraina va condannata senza riserva alcuna”. Ma ammonisce: “Non lasciamo però che la società civile della Russia venga identificata tout court col suo leader”. Il rischio? “Si sta creando un clima di isteria che è già arrivato a colpire uomini di cultura e la stessa cultura russa”. L’interrogativo: “È dietro l’angolo l’invito a bruciare in piazza i libri di Dostoevskij, Tolstoj, Cechov?”. L’esclusione della cultura russa dal dibattito culturale, dall’insegnamento universitario, dai progetti di collaborazione scientifica, per Giuliani è un campanello d’allarme: “La nostra tradizione umanistica ci ricorda che scienza e cultura sono ponti che corrono molto più in alto della contingenza politica e che uniscono i popoli”.