di Stefania Rotondo
Nella vita di tutti i giorni la chiamiamo ipocrisia. In politica si chiama realpolitik, politica concreta, fondata sugli interessi e non sui sentimenti e le ideologie, tesa alla ricerca diplomatica di un equilibrio fra gli stati. E visto che oramai viviamo in un mondo globalizzato, gli interessi e gli equilibri sono inevitabilmente internazionali. I destini delle nazioni di tutto il mondo sono connessi, e la guerra intercorsa tra due soli paesi diventa di tutti. Certo, ci sono guerre di serie A e guerre di serie B. Dipende dalla forze in campo. Ma quella che stiamo vivendo alle porte d’Europa è una guerra da Champions League.
Lo studio della storia dovrebbe evitare errori, trovare soluzioni, aiutarci a diventare saggi. Eppure di fronte alla brutale e illegittima invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, l’obiettivo della realpolitik, la cui scuola di pensiero nacque proprio nel cuore d’Europa con lo scopo di mantenere la pace escludendo la corsa agli armamenti, pare irrealizzabile. Il pragmatismo che deve essere un punto di forza in un’entità collettiva e non un segno di declino, il multilateralismo storicamente e tendenzialmente tipico delle democrazie liberali, vacillano dinnanzi alle sofferenze e all’invasione di un popolo sovrano.
Certo, tutte le guerre sono orribili. Furono bombardati ospedali anche in Corea, in Vietnam, in Afghanistan, in Georgia. Attualmente in Siria, Yemen, Etiopia, Mali, in Nagorno Karabakh, in Libia, in Somalia. La guerra è un male assoluto. Non è che ci manchi la forza delle armi, ma la grande politica che fermi la guerra.
Stiamo vivendo un ossimoro. In questo mondo globalizzato i fantasmi delle Patrie non vissute creativamente aleggiano come demoni. I nazionalismi si alimentano dei ricordi nazionali e ricostruiscono la storia. Putin lo ha fatto più volte e, anche se oggi appare più emotivo e irrazionale, sta perseguendo un piano che ci aveva illustrato nel suo storico discorso alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza nel 2007, mettendo in guardia dai rischi di un mondo unipolare e dell’allargamento della Nato. Allora la sua analisi apparve come una dichiarazione di una nuova Guerra Fredda. Oggi appare per quello che è.
Abbiamo sottovalutato le minacce di Putin, ci siamo trincerati dietro un pacifismo ipocrita, abbiamo perso tempo a concentrarci sul processare noi stessi, la nostra storia, colpevolizzandoci per gli orrori dell’imperialismo nostro, non volgendo lo sguardo (anche e soprattutto per interessi commerciali) a quello russo e cinese. L’Occidente è in decadenza per il crollo della sua autostima. Siamo una società ormai debole. ‘È finita l’illusione’, dice Draghi, ‘l’invasione dell’Ucraina segna una svolta decisiva nella storia europea. Ci eravamo illusi che la guerra non avrebbe trovato più spazio in Europa, che potessimo dare per scontate le conquiste di pace, sicurezza, benessere, che le generazioni che ci hanno precedute hanno conquistato con sacrifici’. Eppure la nostra cultura ci imporrebbe il dovere di non contrapporre, a un’idea di storie e sacri radici, un’idea di guerra contemporanea. Però girarsi dall’altra parte ora è impossibile.
Alcuni lo chiamano ‘il dovere della resa’. Zelensky dovrebbe fare un passo verso il realismo e cedere delle cose. Concretezza e pragmatismo secondo i piani di Putin equivarrebbero per l’Ucraina alla fine.
Che ci piaccia o no i russi e gli ucraini sono cosa nostra. All’Europa, a differenza di quanto avveniva ai tempi della Guerra Fredda, non basterà più proteggersi sotto l’ombrello americano. Abbiamo pensato per troppo tempo che la lunga pace di cui abbiamo goduto fosse una condizione non dipendente da rapporti di forza per tanto tempo a noi favorevoli. Le cose non stanno più così. Quel che sembrava garantito per sempre implicherà una conversione dolorosa.
Gramsci diceva: ‘Quando il vecchio è morto e il nuovo mondo stenta a nascere, nascono i mostri’. E i mostri per essere sconfitti necessitano di grandi battaglie.