Le dimissioni di Marco Damilano dalla direzione de L’Espresso e la vendita della testata sono un fatto preoccupante per tutta l’informazione italiana. Un gesto di dignità di fronte ad una scelta di una proprietà che ancora una volta (era successo con la sostituzione di Verdelli) si mostra priva di stile, prepotente, forse infine del tutto inadatta al ruolo. Perché davvero non si capisce per quali motivi la società che fa capo al nipote di Gianni Agnelli abbia comprato il gruppo Repubblica-L’Espresso, per poi procedere il giorno dopo e senza indugio alla rottamazione dello stesso.
Come dimostrano le dismissioni di buona parte del patrimonio delle testate locali, i tagli e la riduzione dei giornalisti, i prepensionamenti forzati, infine la vendita di un pezzo del ‘900 italiano qual è appunto L’Espresso. Una linea scellerata, per usare le parole di Damilano che, al di là della malagrazia di comportamenti (di tutt’altra scuola era l’Avvocato), dimostra una assoluta impermeabilità a qualsiasi senso della storia delle (proprie) testate e la totale estraneità al mondo del giornalismo. Un mondo nel quale il non più giovane Elkann e i suoi sodali si muovono con la delicatezza di elefanti in una bottega di ceramiche pregiate.
Naturalmente di questa dismissione traumatica per un giornale che ha educato alla democrazia e al rispetto dei diritti almeno tre generazioni di italiani, le responsabilità non sono solo in capo agli ultimi proprietari, giunti alla fine di un percorso segnato dalla malaccorta gestione di De Benedetti padre, il quale incautamente pensò di lasciare in regalo ai figli un oggetto da lui considerato prezioso ma non da questi ultimi. I quali, come nelle storie familiari di decadenza, se ne sono disfatti per fare cassa. Un comportamento che oggi il gruppo Gedi replica, se vogliamo con più arroganza. Il tutto avviene nella sostanziale sordina che avvolge le notizie sul giornalismo e l’informazione tradizionali, forse perché è passata l’idea che oramai non ci sia granché bisogno di essi nell’era del tempo reale, dell’online, del citizen journalism, della morte della opinione pubblica. Un errore che si rischia di pagare caro.
Del resto la promessa democratica e pluralista di Internet è stata smentita da molti anni. Una sordina rotta ieri dalle parole di Corrado Augias che in tv ha criticato Elkann accusandolo nella sostanza di non essere capace di fare l’editore.
A parte ciò, la speranza di Marco Damilano di sollevare, con il suo gesto, una discussione sullo stato dell’informazione nel paese è rimasta sino ad ora, appunto, solo una speranza. Poca o nessuna attenzione da parte dei media più importanti, taciturni i commentatori della grande stampa. Colpa della guerra? No, direi che non è colpa della guerra. O almeno non solo.