di Giuseppe Sciarra

L’anno è il 1986, un anno di grazia per William Hurt che vince l’ambita statuetta degli Oscar per un film tratto da un romanzo meraviglioso: “Il bacio della donna ragno”, dello scrittore argentino Manuel Puig, ambientato negli anni Settanta durante la dittatura. I protagonisti della pellicola sono due detenuti in una prigione di Buenos Aires, l’omosessuale Louis Molina (William Hurt) e il rivoluzionario Valentin Arregui (Raúl Juliá). Tra i due si instaura man mano un forte legame che scaturisce dopo un racconto che Molina fa all’uomo su un melenso film nazista visto prima di essere incarcerato, che vede come protagonista una fascinosa chanteuse (Sonia Braga) che si innamora di un gerarca nazista e ordisce con lui un piano ai danni dei rivoluzionari francesi.

Ho rivisto con enorme piacere la pellicola benché non sia perfetta e abbia delle pecche, soprattutto nelle scene che coinvolgono la Braga, un po’ caricaturali e patinate, in seguito alla brutta notizia riguardante la morte di Hurt. Volevo vedere il film che ne ha determinato l’effettiva consacrazione per ricordare l’attore, le cui ottime performance di lì in avanti non mancheranno (“Il grande freddo”, “A history of violence”, “Fino alla fine del mondo”, “Alice”, “ Un padre in prestito”, “A.I – Intelligenza artificiale”) oltre che altre candidature agli Academy Awards. È stata un’ottima occasione per apprezzare di nuovo un attore garbato, elegante, dalla bellezza fine e discreta, i cui modi pacati e l’estrema riservatezza me l’hanno sempre fatto apprezzare e la cui morte ha colto tutti di sorpresa, benché ci fossero già delle avvisaglie sul tumore al pancreas nelle ultime apparizioni, dove il volto appariva smunto e provato dalla malattia.

Ritornando a “Il bacio della donna ragno” e al personaggio dell’omosessuale interpretato da William Hurt, la mia opinione a riguardo è duplice: Hurt ha saputo caratterizzare in maniera impeccabile Louis Molina mettendo in evidenza tutta la solitudine e la disperazione a cui venivano spinti i gay in quell’epoca, o meglio tutti quegli omosessuali che avevano la sfortuna di vivere in una dittatura, quelle sudamericane erano terribili – non che fosse piacevole anche per chi non fosse gay vivere in una realtà del genere, precisiamolo!

Ciò che ho apprezzato meno è rimarcare l’aspetto macchiettistico e il cliché del gay ad uso e consumo delle masse, debole, solo ed incapace di essere se stesso e di essere un uomo a causa della censura della madre di turno – di certo questa non è colpa di Hurt, precisiamo anche questo, ma della caratterizzazione che la sceneggiatura e la regia hanno voluto dare al personaggio. Questa del gay alla vizietto style è una favoletta con cui per tanto tempo e in particolar modo nei decenni delle contestazioni si è voluto inculcare alla gente un certo tipo di omosessuale – un po’ come fa la Russia di Putin oggi e ieri invece facevano gli Stati Uniti e quindi l’Europa.

A parte questa riflessione sul personaggio di William Hurt, la cui interpretazione è stata – come di consueto nella sua carriera – magistrale, il film mi è piaciuto e Hurt resterà per sempre un attore indimenticabile e di culto della cultura occidentale, questo ruolo ne è la dimostrazione, ne sto parlando positivamente e anche negativamente, il che vuol dire che spinge a una criticità nel bene e nel male. Nulla di meglio per un attore. Purché se ne parli. Buon viaggio William Hurt!

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