Un tassello importante nel puzzle che compone l’origine del morbo di Parkinson è stato aggiunto oggi da un gruppo di scienziati del Scripps Research Institute di San Diego, negli Stati Uniti. Secondo gli esperti, a determinare, in parte, l’insorgere del morbo di Parkinson sarebbe un’interruzione nel sistema di pulizia delle cellule, dovuta a eventi biochimici legati allo stress cellulare, che porta alla formazione di aggregati proteici che danneggiano il cervello. L’ipotesi, pubblicata sul Journal of Neuroscience, potrebbe condurre la medicina in futuro verso nuovi trattamenti inibitori in grado di rallentare la malattia in modo significativo, se non addirittura un giorno fermarla. La malattia di Parkinson è il secondo disordine neurodegenerativo, in termini di frequenza, dopo la malattia di Alzheimer. Nei paesi industrializzati ha un’incidenza di circa 12/100.000 persone all’anno con una prevalenza, di circa 2 milioni di individui affetti. La malattia è leggermente più frequente nel sesso maschile rispetto al femminile. Il Parkinson è una malattia degenerativa, a progressione lenta, caratterizzata da tremore a riposo, rigidità, lentezza e diminuzione dei movimenti. L’età media di insorgenza è di circa 57 anni.
Già precedenti ricerche avevano dimostrato come alcuni aggregati di alfa-sinucleina possono diffondersi da un neurone all’altro nel Parkinson e nella demenza a corpi di Lewy (Lbd), sostanzialmente trasmettendo il processo della malattia attraverso tutto il cervello. Ma come questi aggregati si formino e si diffondano non è ancora chiaro. Un indizio, che ha portato allo studio della Scripps Research, è che il processo delle due patologie generi molecole altamente reattive che contengono azoto e che queste distruggano parti importanti dei sistemi cellulari, tra cui quelli della ‘pulizia’ e che, per l’appunto, tengono sotto controllo gli aggregati.
Nel nuovo studio, il team guidato dal professore Stuart Lipton del Dipartimento di medicina molecolare dello Scripps Research, ha dimostrato la validità di questa idea dimostrando che un tipo di reazione azoto-molecola, chiamata S-nitrosilazione, è in grado di influenzare un’importante proteina cellulare chiamata p62, innescando l’accumulo e la diffusione di aggregati di alfa-sinucleina. La proteina p62 normalmente aiuta nell’autofagia, un sistema di gestione dei rifiuti che aiuta le cellule a liberarsi degli aggregati proteici potenzialmente dannosi. I ricercatori hanno trovato prove che nei modelli cellulari e animali di Parkinson, p62 è S-nitrosilato a livelli anormalmente alti nei neuroni colpiti. Questa alterazione di p62 inibisce l’autofagia, causando un accumulo di aggregati di alfa-sinucleina. L’accumulo di aggregati, a sua volta, porta alla secrezione di questi da parte dei neuroni colpiti e alcuni vengono assorbiti dai neuroni vicini. I ricercatori, inoltre, hanno voluto effettuare dei test nei cervelli di pazienti con Lbd deceduti e anche in questo caso sono stati trovati livelli anomali di S-nitrosilato p62, a supporto dell’ipotesi che ha animato lo studio.
Ora, spiegano gli studiosi, sapere che la modifica che subisce p62 può essere un fattore chiave nello sviluppo del Parkinson e della Lbd, può portare allo sviluppo, che è già in corso, di composti del tutto simili a farmaci che possano inibire il processo di S-nitrosilazione di p62. Chiaramente ci vorranno anni per vederli nascere ma soprattutto farli entrare in commercio, ma in linea di principio potrebbero essere questi composti a rallentare il processo delle patologie o di prevenirne una diffusione nel cervello.
Paola Perrotta