di Franco Failli
Da qualche settimana si protesta contro il concetto di alternanza scuola lavoro. Molti si sono accorti che quelle ore, tante o poche che siano, che gli studenti devono passare in luoghi dove si lavora sono, in molti casi, una pura perdita di tempo. E quando capita che qualcuno lavori davvero può succedere che muoia, esattamente come qualsiasi altro lavoratore di questa Italia problematica.
Ma anche ammettendo che non si vada a perdere tempo, e che il lavoro, quando c’è davvero, non ammazzi nessuno, siamo sicuri che vada bene diminuire le ore di studio per “mandare i giovani a lavorare”? Oggi c’è davvero meno bisogno di studiare di ieri? Sembrerebbe proprio di no, considerando che ci troviamo a vivere in un mondo sempre più complesso. Inoltre di lavoro ce n’è sempre di meno, e non si capisce proprio questa ansia di coinvolgere altra gente, a meno che non si tratti di un bel trucco per convincere subito le nuove leve che il lavoro è una roba tendenzialmente noiosa, stressante, e che uno stipendio dignitoso è un lusso non dovuto.
E allora tutti a dire che no, non va bene, che a scuola si studia e il lavoro deve venire solo quando la scuola è finita. Ok, tutto giusto, ma non è che così si accetta implicitamente che la scuola è “bene” e il lavoro è “male”? Forse sarebbe utile pensarci su, intanto perché sappiamo tutti che in realtà la scuola oggi non è ovunque questo luogo di delizie culturali. E soprattutto perché dovremmo domandarci se sia una buona idea accettare come indiscutibile che il lavoro sia solo una cosa stressante e alienante, dalla quale non ci si salva se si vuole sopravvivere. E’ una idea vecchia di secoli, secondo la quale il lavoro è da considerare unicamente come “travaglio”, da affrontare solo quando si è abbastanza maturi da resistere a tanto stress e a tanta alienazione. Siamo sicuri che sia il caso di continuare a pensarla così?
E non è in fondo semplicistico pensare che i giovani debbano essere tenuti “al riparo”, quando loro il lavoro abbrutente lo vedono già, e ci sono già intimamente in contatto? Vedono già abbrutirsi i loro padri e le loro madri (quando riescono a lavorare). Per non parlare del lavoro dei loro professori. Vogliamo dire che è proprio quel lavoro lì che prima di ogni altro deve cambiare, per impedire che i ragazzi perdano la possibilità di educarsi davvero quando sono a scuola?
Allora forse non è una cattiva idea quella di fare un passo in più, nella polemica contro l’alternanza scuola lavoro, e arrivare a dire che, in generale, una buona idea sarebbe quella di cominciare ad abbandonare quell’idea di lavoro che ci ha accompagnati negli ultimi trent’anni (o quaranta?). Abbandonare cioè l’idea di un lavoro che serve solo a procurarsi la pagnotta, per riconsiderare l’idea di un lavoro che serva a vivere. Un lavoro che dia non solo cibo, alloggio e vestiti, ma anche soddisfazione e che non sia funzionale solo all’aumento smisurato dei soldi nelle tasche di pochi, ma che faccia aumentare la solidità e la felicità di una comunità fatta da tutti.
Forse il concetto giusto per avviarsi in questa direzione è proprio il contrario di quanto si è fatto finora. Forse l’alternanza giusta non è quella tra scuola e lavoro, ma tra lavoro e scuola. Intendendo cioè un lavoro attraversato, influenzato, anche da attività formative ed educative, che lo migliorino nella sua sostanza quotidiana, e quindi anche nella sua efficacia, che ne cambino il modo in cui funziona e in cui è percepito nel suo senso generale e che lo rendano cioè finalmente qualcosa di coerente con quella frasetta con cui si apre la nostra costituzione: “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. Non credo che i membri dell’assemblea costituente abbiano sbagliato parola e volessero invece dire “L’Italia è una repubblica fondata sull’alienazione”. Loro l’italiano lo sapevano, dato che a scuola c’erano andati quanto basta.