di Ezio Roppolo e Mario Agostinelli
Nello scenario energetico italiano e internazionale alcuni aspetti della nostra realtà economica e politica trascurano o sottovalutano la “questione dell’idroelettrico” e, nel caso nazionale, la condizione svantaggiosa cui sono sotto sottoposte le popolazioni montane che ne usufruiscono. La produzione annua italiana di elettricità in Italia è di circa 280-300 TWh. La produzione elettrica dall’acqua che scende giù dai monti è quindi circa il 17%, cioè 45-50 TWh: un business vicino ai dieci miliardi di euro all’anno di fatturato, poco più di mezzo punto percentuale del nostro Pil. Questi terawattora sono quasi esclusivamente prodotti nei bacini delle nostre montagne e coprono 10,6 milioni di ettari, il 35% della superficie italiana.
Attualmente, i loro territori sono poco densamente popolati – circa 40 abitanti per chilometro quadro – prendendo come riferimento i dati della Valle d’Aosta e della provincia di Sondrio, i cui fondovalle sono peraltro molto più affollati. Se anche ipotizziamo che tutti costoro consumino in media come gli abitanti delle colline e delle pianure, anche se in pianura è insediato il maggior numero di industrie e tra loro le più “energivore”, possiamo facilmente comprendere che i territori montani meno popolati trattengano per il proprio uso solo una scarsa metà della produzione, 20-25 TWh, mentre la rimanenza viene utilizzata dal resto dell’Italia. L’energia idroelettrica prodotta tra i monti la consumiamo probabilmente entro un massimo di 50 km, quindi è quasi a chilometro zero, cioè con costi di trasporto molto più bassi di quella che si manda a Roma o a Milano. Possiamo inoltre aggiungere che anche gli “oneri di sistema” causati dalle funzioni di regolazione della rete non dovrebbero riguardare gli abitanti montani, dato che l’idroelettrico è molto “programmabile” e, semmai, contribuisce positivamente alla regolazione della rete.
Ora facciamo un po’ di conti in tasca per vedere dove vanno i denari delle bollette nel caso dell’idroelettrico, sia quelli “normali” che quelli “super” dovuti all’esplosione dei prezzi energetici degli ultimi mesi. Al fisco vanno direttamente 2,6 centesimi: il 13% di quei 20 centesimi di euro al KWh dovuto costantemente a impianti ad alimentazione prettamente naturale. Il ciclo dell’acqua anche in questo caso si rivela virtuoso, ma oneroso per chi convive con esso. Esiste poi un costo di distribuzione dell’energia che viene portata nelle fabbriche, negli uffici e nelle case di tutti a qualunque distanza arrivi la rete elettrica. Chi vive in montagna paga questo costo, comunque, al monopolio di Terna, posseduta indirettamente dallo Stato, che si prende il 17% per il trasporto e l’11% per gli oneri di sistema, cioè 5,6 centesimi di euro per ogni KWh consumato, anche se sta a “chilometro zero” dalla sorgente elettrica.
È evidente che “trasporto” e “sistema” dovrebbero costare molto meno ai montanari: l’energia è prodotta in loco e l’idroelettrico è molto programmabile, quindi non incide sulla gestione della rete: anzi, semmai la “aiuta”. Di conseguenza, per i territori interessati sarebbe probabilmente equo almeno dimezzare tale costo. Inoltre, il costo complessivo di tali oneri non dipende dal prezzo della fonte, quindi non dovrebbe variare se questo cambia con le dinamiche di mercato.
Valutiamo ora il costo effettivo della produzione. Il dato rilevato porta a una media di circa 5 centesimi di €/KWh (citiamo la fonte perché internazionale e autorevolissima). Tra imposte e tasse sui profitti, il fisco assorbe circa il 30% del totale (2,6+3,4 centesimi di euro) e Terna, proprietà indirettamente dello Stato e gestore della rete, un altro 28% (5,6 euro). Tolto il costo effettivo della produzione, ai concessionari/produttori rimane un utile del 40% [3,4/(5+3,4)]: un risultato veramente fantastico, per giunta con un rischio bassissimo, intrinseco nel business che è anche tecnologicamente molto maturo.
Il prezzo a 40 centesimi è quindi un inappropriato raddoppio rispetto alla “normalità” appena esaminata. Questa situazione verrebbe considerata un raro caso di “fallimento di mercato”; infatti, “lato domanda”, i consumatori sono obbligati a un consistente e indebito pagamento collettivo, mentre l’offerta ottiene un guadagno totalmente immeritato, perché ottenuto senza cambiamento o distinzione della capacità competitiva.
L’aspetto più tragicamente grottesco della questione dobbiamo però ancora descriverlo e riguarda l’incertezza che ha fermato le manutenzioni in tanti casi da oltre mezzo secolo. Per i bacini come per le autostrade! Quando, durante una camminata sui sentieri, osservate il centro dei laghetti sbarrati da dighe ripieni di residui, di alberi e rami, dovete pensare che per almeno 50 anni non si sono effettuati i dragaggi previsti dalle concessioni. Molte dighe con la siccità attuale a volte non contengono quasi più acqua: quindi tra poco diverranno “improduttive”, ma già ora non sono più in grado di svolgere funzioni di regolazione del flusso, utile per l’agricoltura o per la prevenzione di inondazioni. Situazioni analoghe se ne trovano molte, troppe, sopra la suola dello Stivale.
Ai territori montani rimangono il peso dei danni ambientali e gli svantaggi socioeconomici che hanno progressivamente spopolato le nostre valli, mentre ad altri vanno i benefici della disponibilità di energia elettrica. Su tutti grava lo stesso peso fiscale, pur beneficiando degli stessi servizi pagati con le tasse. I benefici economici della produzione di tutta la produzione idroelettrica vanno invece agli operatori, in grandissima maggioranza aziende di proprietà privata: sono pochi i casi di nostra conoscenza in cui la proprietà è prevalentemente o totalmente in mano a enti pubblici locali (anche se le municipalizzate si comportano come fossero ancora enti pubblici!).
Il governo attuale e gli operatori stanno armeggiando per rendere eterna questa situazione, sia attraverso il ddl Concorrenza sia rinviando a tempo indefinito la scadenza delle concessioni. Mantenere lo status quo aumenterà la protervia degli operatori nei confronti dei territori, delle amministrazioni locali, persino dei sindacati. Già ora questi soggetti si trovano a fronteggiare strapagati prìncipi del foro ogni rara volta che tentano di “alzare la cresta” e richiedere qualche minuscolo vantaggio per i propri abitanti. Dunque anche la meravigliosa capacità di trarre dall’acqua l’energia più pregiata che conosciamo senza nemmeno produrre emissioni nocive si è trasformata in un mezzo di sfruttamento indiscriminato dell’ambiente e della popolazione.