di Pietro Fucile
Quando nel 1854-55 divenne il teatro principale della Guerra d’Oriente, a cui le truppe del Regno piemontese (pagando alte perdite al colera più che ai combattimenti) parteciparono per ottenere l’appoggio anglo-francese al progetto dell’unificazione italiana, la comunità degli italiani, perlopiù di radice ligure, era già parte del carattere multietnico che in Crimea si era consolidato con l’insediamento di genti di svariate nazionalità. Molti dei Tartari invece, sempre più a disagio per le persecuzioni e per la perdita dell’indipendenza di cui avevano goduto per secoli, poco alla volta se n’erano oramai in buona parte andati via.
Negli anni successivi, ad avvenuta realizzazione dell’Unità d’Italia, quando cioè tanti meridionali dovettero trovare più conveniente emigrare che restare, in Crimea andò a stabilirsi, su esplicito invito delle autorità imperiali russe, una comunità di “Italiani del Sud” provenienti principalmente dalla Puglia e dalla Campania, con il mandato di fare da propulsore allo sviluppo di varie attività artigiane, dell’agricoltura e ad arricchire le competenze legate alla pesca e alla marineria. Ben presto questo piccolo popolo di meridionali si consolidò, arrivarono architetti, medici, avvocati, musicisti e, non solo per via del contributo professionale ma anche per l’operosità, la creatività e la generosità, seppero conquistarsi la stima della popolazione locale, contribuire in maniera decisiva allo sviluppo di quella terra e divenirne rispettato riferimento che aveva le sue basi principali nelle antiche città costiere di Kerc’ e Feodosia.
Tenuto conto delle lacerazioni che reca qualsiasi emigrazione, è questa una storia d’integrazione e di successo per una comunità che alla vigilia degli anni Trenta del XX secolo arrivò a contarsi in alcune migliaia. Persone la cui prosperità è testimoniata non solo dalla regolare pubblicazione sul giornale locale “Kerčenskij Rabocij” di articoli in lingua italiana, ma anche dalla presenza di una scuola italiana, di una biblioteca, di una società cooperativa e dalla chiesa cattolica di S.Maria Assunta che per tutti era, ed è rimasta, “la chiesa degli italiani”. Fu poi il tempo della Collettivizzazione, le “Grandi purghe”, l’Holodomor del 1933, e anche gli italiani di Crimea pagarono con la vita la tragica repressione che Stalin volle, e diresse, per sbarazzarsi degli avversari politici e di milioni di cittadini semplicemente sospettati di ostilità al regime.
Ancor più drammatico nel ‘42, a secondo conflitto mondiale in corso, il rastrellamento casa per casa e la feroce deportazione nei gulag del Kazakistan, dove in molti, per via dei due mesi di viaggio sui carri bestiame a temperature proibitive, non riuscirono neanche ad arrivare. A quelli che invece arrivarono, ci pensarono la fame, le malattie e i lavori forzati a decimarli.
A conservare la memoria delle origini poterono tornare in poche decine. Oggi però la comunità può contare su circa 500 persone che dal 2008 saldano un legame d’appartenenza attorno alle preziose attività dell’Associazione Cerkio, presieduta da Giulia Giacchetti Boito, figlia di deportati, e che ha il merito di aver tenuto vivo spirito, tradizioni, lingua e memoria di quell’identità, ispirando la pubblicazione di alcuni libri (il più recente è “Gli italiani di Crimea. Dall’emigrazione al Gulag”, scritto con sensibile partecipazione da Heloisa Rojas Gomez) e l’allestimento di una mostra, ospitata in molte città italiane, a raccontare con documenti, lettere e fotografie, trame, vissuto e radici di una minoranza, fiera e determinata, che usa le parole di una parlata barese “fossilizzata”, che cucina le orecchiette e che nel 2015 ha visto riconoscersi dalla Russia lo status di deportati, così da accedere ad un piccolo risarcimento. Una minoranza tuttavia trascurata dalle nostre istituzioni che non hanno mai seriamente avviato quel lavorìo diplomatico per giungere alla restituzione della cittadinanza italiana perduta in epoca sovietica.