Sicuramente l’Italia, rispetto ad altri paesi del mondo occidentale, ha fatto meglio e la percentuale di vaccinazione è un fattore molto positivo. Ma “l’obiettivo primario” della lotta al Covid, dopo l’emergenza, ancora non è stato raggiunto ovvero “la gestione dei ricoveri senza sacrificio delle altre attività”. Il professor Giovanni Di Perri, direttore del reparto di Malattie infettive dell’ospedale Amedeo di Savoia di Torino, commentando le decisioni del governo e l’allentamento delle misure ricorda che la vera fine dell’emergenza ha un aspetto diverso dalla dichiarazione di stop dell’utilizzo del Green pass: “Noi dobbiamo avere i reparti liberi per curare i tumori, fare prevenzione, tutto quello che serve per un paese che ha una aspettativa di vita di 83 anni e che dobbiamo mantenere. Siamo quinto paese al mondo e per mantenere questa posizione dobbiamo far fatica”.
Più che al presente che appare, al momento, gestibile bisognerà pensare e attrezzarsi bene per il futuro. Mettendo in conto sia il potenziale arrivo di una nuova variante più aggressiva di Sars Cov 2 che quello di un nuovo patogeno: “Il pericolo è in agguato e le incognite sono molte“. Anche per questo secondo l’infettivologo bisognerà pensare all’obbligo vaccinale per i più piccoli quando arriveranno i vaccini aggiornati sulla variante Omicron.
L’allentamento delle misure in un momento in cui Omicron e le sue sorelle stanno comunque provocando un aumento dei contagi ce lo possiamo permettere?
Ero molto scettico quando si decise la riapertura delle scuole dopo Natale, anche perché non conoscevamo ancora Omicron e la sua ridotta virulenza l’abbiamo verificata solo a metà gennaio. Invece devo dire che le cose sono andate abbastanza bene. Abbiamo avuto numeri comunque luttuosi, ma meno delle altre ondate. E alla fine hanno avuto ragione loro. Ma la riduzione delle misure, in una popolazione ormai educata, deve avere un obiettivo primario: la gestione dei ricoveri di Covid 19 senza il sacrificio delle altre attività ordinarie o straordinarie e che al momento non c’è. Non è un obiettivo raggiunto. Abbiamo una minore pressione ma gli ospedali, per come sono conciati oggi, non possiamo dire che vada bene. Dobbiamo sperare di ricoverare molto meno. Quindi dovremo avere meno casi nuovi e meno decessi. Allora nel definire questo obiettivo e la raggiungibilità delle stesso abbiamo fattori positivi e negativi.
Quali sono?
Fra i positivi metterei comunque la copertura vaccinale che è molto alta. Circola finalmente una variante un po’ meno virulenta, anche perché con questi numeri sarebbe stato un inferno dantesco. Un terzo elemento favorevole, e dico finalmente, sono le terapie precoci (gli antivirali e i monoclonali, ndr) che sono in esercizio e questo significa una riduzione dal 50 all’80% di persone che erano a rischio di ricovero per età o comorbidità. C’è un quarto fattore molto importante ed è che con questa enorme ondata Omicron si è immunizzata molta gente: questo equivale almeno a una vaccinazione completa.
Poi ci sono i fattori negativi.
Uno è il decremento dell’efficacia del vaccino nel tempo anche se non per la malattia grave. Un secondo elemento, che è chiaro a tutti e comincia a essere evidente in Europa, è la riduzione della pressione mediatica: questo porta anche una ridotta osservanza delle misure: mascherine e distanza. E il rialzo dei contagi è dovuto anche a questo. Ho guardato le mappe dei diversi paesi europei e per esempio la Germania, dove Omicron è arrivata più tardi, dopo un piccolo calo ha registrato un rialzo in coincidenza con il conflitto in Ucraina. Una angoscia ha sostituito l’altra. Poi c’è la poca vaccinazione tra giovani e giovanissimi soprattutto. I bimbi sono poco vaccinati. Se c’è un paese che può avere un po’ di coraggio è l’Italia, ma le incognite ci sono e sono importanti.
Ma quindi c’è stata una sufficiente gradualità nell’allentamento delle misure?
Dire di sì, in Inghilterra si va nei locali senza mascherina e non testano più molto come facevano prima. La gradualità italiana ha premiato e abbiamo passato l’autunno migliore del mondo occidentale senza non dover mai chiudere. Mentre altri paesi come Austria, Olanda, Danimarca hanno dovuto farlo.
Con la fine dello stato di emergenza è stato sciolto il Cts che è stato il supporto scientifico del governo: rimarrà un’unità di presidio. Non è troppo presto e troppo poco?
Non credo che smetteranno di lavorare, magari si potrebbe fare un Cts a distanza e aggiungere qualche medico, qualche clinico, quelli che vedono i malati perché ci sono fenomeni che nascono negli ospedali che hanno una ripercussione in termini di magnitudo su tutto il territorio. Se posso fare una piccola critica direi che aggiungerei un clinico; farebbe comodo e avrebbe fatto comodo. Con il senno di poi alcune cose si sarebbero potute fare.
Quali?
Penso alle attività sciistiche, penso che si poteva anticipare l’obbligo della mascherina Ffp2 al chiuso. E anche prima del vaccino quando arrivarono i test rapidi affidabili si sarebbe potuto disegnare uno studio pilota, aprendo 20 ristoranti e permettendo l’accesso con test negativo. Sarebbe stata una possibilità in un momento molto cupo quale è stato l’autunno del 2020. Con il senno di poi però sono buoni tutti. Abbiamo comunque fatto meglio di paesi con cui siamo in costante soggezione.
Come considera il Green pass ora che è stato superato come strumento?
È stato certamente un motivatore alla vaccinazione, i dubbiosi lo hanno fatto. Personalmente io mi sentivo più tranquillo quando sapevo che chi era accanto a me aveva fatto il mio stesso percorso. Perché il vaccino è stato un gran riduttore del danno.
Gli over 50 sono considerati a rischio, ma non ci sarà più l’obbligo per lavorare
A meno di gravi comorbidità la fascia più a rischio è quella successiva. Poi ora abbiamo molti immunizzati da Omicron, i numeri sono spaventosi.
La scuola e le misure del passato e del futuro.
Era e rimane un grosso mobilizzatore di infezione. Abbiamo ancora molti casi tra i bambini. C’è stato un azzardo da parte del governo, ma premiato, di non chiudere le scuole, va detto. Io non lo avrei fatto. I bambini non rischiano molto, ma comunque si ammalano. Io li vedo come medico. Siccome abbiamo l’obbligatorietà vaccinale per la protezione di malattie che, nel caso circolassero, farebbero meno morti servirà fare un ragionamento di coerenza. Nel preparare la prossima stagione scolastica e con l’arrivo del vaccino aggiornato questo dovrebbe essere preso in considerazione. Se c’è l’obbligano per il morbillo, anche per il Covid vale la pena.
È ancora convinto che faremo la vaccinazione annuale?
Sì. Potrebbe essere annuale per i soggetti più vulnerabili e per i bambini con una frequenza minore. Noi dobbiamo avere i reparti liberi per curare i tumori, fare prevenzione, tutto quello che serve per un paese che ha una aspettativa di vita di 83 anni e che dobbiamo mantenere. Siamo quinto paese al mondo e per mantenere questa posizione dobbiamo far fatica.
Omicron è meno virulenta, ma Omicron 2 secondo alcuni ricercatori giapponesi è più patogena.
Può darsi, uno dei motivi che però ci spiega la minore virulenza di Omicron sono proprio le sue caratteristiche. Infetta le alte vie aeree mentre ha più difficoltà a infettare il polmone che è quello poi che porta al ricovero. Su Omicron 2 vedremo, certo impone una certa vigilanza. Ma in termini evoluzionistici un virus che perde virulenza non ha convenienza a riguadagnarla.
Medicina territoriale. La lezione della pandemia è servita?
È molto cambiata dagli anni ’60 a oggi. Un utente in genere pensa a un ricettificio eppure sul territorio ci sono colleghi medici fantastici e che in molti casi nella prima ondata ci hanno rimesso la vita. Non è stato facile. Al di là del Covid questa asimmetria tra ospedale e territorio va raddrizzata. La medicina di territorio deve ridurre gli accessi agli ospedali che in passato hanno subito pesanti tagli di posti letto. C’è bisogno di una anagrafe delle risorse e dei bisogni. Un ripensamento del sistema sanitario nazionale va fatto anche in funzione di altri segnali. Molti medici e infermieri vanno a lavorare all’estero e i loro studi sono pagati anche con le tasse di tutti noi. Poi paesi come Svizzera e Inghilterra prendono i nostri medici senza aver speso una lira per formarli. Qualcuno che conti ci pensi a questo.
In conferenza stampa il premier Draghi ha parlato di strutture permanenti internazionali per affrontare in futuro emergenze come l’epidemia di Covid. Ce la faremo?
Questa è una incognita, ma spero che i meccanismi oliati in caso di emergenza possano tornare operativi in fretta. Certo che va assolutamente preparato il futuro. Nel giro di pochi anni è aumentata la popolazione mondiale – e penso a Cina e India – e in 18 anni questo è il terzo virus che ha fatto lo spillover ed è passato agli umani: prima ci sono stati Mers e Sars. Vuole dire che quindi succederà ancora. Noi teniamo d’occhio l’influenza aviaria e gli ibridi che creano specie nuove che, per fortuna, non si trasmettono da uomo a uomo. Il pericolo è in agguato.
Uno scenario poco rassicurante.
Il ragionamento, al di là dell’ecologia spicciola, è che si tratta di problemi sostanziali: numeri ed eventi per il nostro pianeta. Nel 2014 abbiamo avuto epidemie urbane di Ebola ed è stato la prima volta. Ma è successo perché stiamo deforestando. Il pipistrello della frutta che porta Ebola se non ha la foresta si sposta. Occorre un comitato di saggi internazionale per creare una struttura in grado di prevedere e ammortizzare fenomeni che possono accadere in breve termine.
E va ricordato che oltre un anno fa su Nature un gruppo di scienziati ha invitato a prepararsi perché il prossimo virus potrebbe essere “meno accomodante” di Sars Cov 2.
Questi fenomeni sono stati molto trascurati in passato. Quando a gennaio 2020 arrivarono le prime notizie dalla Cina ho cominciato a recuperare tutta la letteratura scientifica sui coronavirus. Loro hanno studiato per anni e molto seriamente. E le conclusioni di una ricerca diceva che il problema non era se ma il quando. Ed era il 2016.