“Se stai a casa non lavori” non è una frase ascoltata solo negli ultimi due anni, quando il fenomeno è stato amplificato dalla pandemia che ha costretto milioni di lavoratori a provare il lavoro da remoto (che impropriamente abbiamo chiamato smart working). Si tratta di un problema culturale che investe, da anni, la nostra imprenditoria, capace di ammazzare l’ingegno dei collaboratori maturi per soddisfare i propri deliri di onnipotenza. Ho più volte ribadito su queste colonne (qui e qui) che al collaboratore non si chiede più solo di essere preciso nell’esecuzione dei compiti, ma soprattutto di conseguire i risultati attesi. Un principio che è portato alle conseguenze più estreme soprattutto nelle aziende, piccole o grandi che siano, ad alta intensità di conoscenza.
Sappiamo però che tutte le aziende, se vogliono sopravvivere, dovranno innovare e che l’innovazione passa attraverso la capacità di produrre idee e prototipi, di “pensare diverso” a soluzioni gestionali innovative. La conseguenza è che anche le imprese tipicamente industriali sono costrette ad aumentare l’impiego di capitale intellettuale in vista di un continuo processo di adattamento alla maggiore competitività nazionale e internazionale.
È anche vero che, se da un lato il lavoro da remoto potrebbe portare a un beneficio per l’azienda (maggiore produttività), dall’altro, nel considerare un beneficio per il lavoratore (maggior work-life balance), bisogna tener presente che l’abitudine a svolgere parte del proprio lavoro lontano dai locali dell’azienda e saper organizzare il proprio tempo dividendosi fra impegni professionali e personali è strettamente correlato al grado di maturità e di engagement della popolazione aziendale, che necessita quindi di una analisi sulle attitudini e i comportamenti. Perché i furbi e gli sfaticati esistono.
Con la pandemia qualcosa è cambiato. Alcune aziende, allenatesi durante i vari lockdown, sono recentemente arrivate a imporre ai propri dipendenti il lavoro a casa per due giorni alla settimana, alleggerendo i costi e costringendo i collaboratori a comportamenti più autonomi e pianificati. Nonostante ciò ancora molte imprese (soprattutto tra le piccole realtà) stentano nell’adottare atteggiamenti flessibili sull’orario. Per loro vale il principio “si lavora solo se si è presenti”.
Riporto, a tal proposito, un divertente aneddoto che ci fa riflettere sul rapporto luogo/lavoro. Mi trovavo nella sede di una azienda operante nel settore della Gdo al cospetto di un addetto al marketing per un momento di affiancamento post-formazione. La sua scrivania era sommersa di carte, telefoni, computer con schermo e tastiera ed era collocata nel bel mezzo di un enorme locale, in cui altre duecento persone parlavano, scrivevano al computer, telefonavano. Non essendoci sedie disponibili, mi misi a sedere sulla scrivania.
“Con tutto questo rumore non mi sarà facile parlare,” esordii, aggiungendo poi: “Non lavori mai a casa, nemmeno per brevi periodi di tempo?”. Abbozzò un mesto sorriso: “Mai. Potrei svolgere gran parte del lavoro da casa, senza dovermi spostare, lontano dalla confusione e da tutto questo rumore. In caso di necessità potrei venire in ufficio, in fondo tutto quello che mi serve è un telefono e un pc”.
“E allora perché non lavori da casa?” ripetei provocatorio. “Perché non mi lasciano”, disse, indicando il fondo della stanza dove sedevano, dietro grandi vetrate, i due manager di questa impresa familiare. “Da là possono vedermi e rivolgersi a me sbraitando”. Verrà il giorno, ed è molto vicino, in cui anche quei due imprenditori capiranno che nessun ufficio va concepito come una fabbrica e che è assurdo pagare l’affitto di tutto quello spazio (o le rate del mutuo) per la soddisfazione di avere sott’occhio i dipendenti e rivolgersi loro sbraitando.
La presenza è necessaria nella produzione dei beni materiali, che non possono che essere prodotti in un luogo materiale. Ma non nella produzione intellettuale. Ci portiamo dietro radicati modelli mentali e siamo comunque orientati alla fisicità del luogo produttivo anche come espressione della fatica e delle sofferenze legate all’applicazione della gerarchia che, ai nostri occhi, appare giustificare il nostro reddito.
Per questo, nel lavoro postindustriale, anche quando non ve ne sarebbe bisogno, siamo istintivamente portati a doverci posizionare in un luogo deputato al lavoro diverso da quello associato al concetto di riposo. Se lavoriamo a casa ci sembra di non aver lavorato. Il modello mentale (che influenza anche il linguaggio) del posto fisso è in noi italiani ancora oggi tra i più radicati. Nonostante non dia più alcuna certezza.