Un segnale chiarissimo l’ha dato la Borsa: a Piazza Affari i gruppi energetici quotati non hanno subito alcun tracollo, al contrario hanno chiuso anche la seduta di martedì in positivo. Nonostante sia in uscito in Gazzetta ufficiale il decreto che prevede quella che è stata descritta come un’imposta una tantum del 10% sui loro extraprofitti ma colpisce in realtà non i profitti bensì il maggior valore aggiunto (imponibile Iva) realizzato nel semestre ottobre 2021-marzo 2022 rispetto al periodo ottobre 2020-marzo 2021. La reazione del mercato è presto spiegata: secondo gli analisti, al netto dell’eventuale rischio di incostituzionalità è incomprensibile come il governo conti di ricavare circa 4 miliardi per questa via. Per la precisione, stando al testo del decreto le misure che dovrebbero essere coperte con i proventi della tassa valgono 3,6 miliardi e vanno dalla riduzione delle accise sui carburanti ai contributi alle aziende per l’acquisto di elettricità e gas, fino all’allargamento del bonus sociale per l’energia.
“Gli impatti nel complesso ci sembrano limitati”, scrive Equita, che ha calcolato per i maggiori gruppi della produzione, importazione e distribuzione impatti limitatissimi: “Stimiamo una base imponibile di circa 70-75 milioni di euro per A2a e di circa 30 milioni per Acea, con impatti inferiori ai 10 milioni. Anche per Enel, Iren ed Hera gli impatti sarebbero limitati. Erg potrebbe avere impatti per le produzioni da solare in Italia e la parte di incentivi expired, tuttavia ha politiche di vendita fwd a 1-2 anni a prezzi significativamente più bassi rispetto ai prezzi di borsa” per cui l’impatto potenziale è stimato i “4-5 milioni”. Per quanto riguarda Eni, che ha chiuso il 2021 con utili per 4,7 miliardi, “nel caso più negativo la tassa sarebbe di qualche centinaio di milioni di euro, anche se una serie di elementi restano ancora da approfondire”. Quindi “gli impatti nel complesso ci sembrano limitati e non è chiaro come il governo possa recuperare 4 miliardi di euro da questo contributo”.
Il disegno della norma suscita poi molti dubbi di coerenza e compatibilità costituzionale. Il docente di diritto tributario Dario Stevanato ha fatto notare che non trattandosi di una addizionale o maggiorazione dell’aliquota Ires il nuovo tributo viola l’articolo 4 dello Statuto del contribuente, che vieta l’istituzione di nuovi tributi con decreto legge. Inoltre, come visto, ha come base imponibile non il reddito o utile di impresa ma “l’eccedenza di “valore aggiunto” conseguito ai fini Iva in un semestre rispetto a quello conseguito nel corrispondente semestre dell’anno precedente”. L’incremento nel valore aggiunto però “è un indicatore troppo grossolano, se da esso si vuole inferire il conseguimento di extraprofitti: lo stesso può infatti dipendere da una molteplicità di fattori, quali un incremento del volume di attività dell’impresa, a parità di margini unitari; può inoltre dipendere dall’effettuazione di operazioni di aggregazione o disaggregazione (fusioni, conferimenti, scissioni” e “è appunto un aggregato lordo, che non tiene conto di costi estranei al novero delle operazioni attive e passive rilevanti per l’Iva, come le spese per il personale dipendente, gli ammortamenti, i deprezzamenti, le svalutazioni, le rettifiche di valore”. Ci sarebbe dunque una carenza “del profilo di coerenza tra gli obiettivi e scopi del prelievo straordinario e la struttura dell’imposta”, con il rischio di violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione.
Bruxelles, nella comunicazione su RePowerEu, aveva raccomandato “un attento monitoraggio dell’andamento dei prezzi della materia prima“, al contrario, continua Stevanato, “il prelievo straordinario concepito dal Governo italiano non discerne in alcun modo gli aumenti dei margini lordi dovuti alla variazione dei prezzi rispetto a quelli dovuti a una variazione dei volumi di vendita e/o dell’acquisizione di nuove quote di mercato” e “non tenendo in alcun modo conto dell’andamento della domanda globale dei prodotti energetici, che era molto bassa durante le fasi più acute della pandemia e si è innalzata successivamente per effetto della ripresa economica”. Aspetto aggravato dal fatto che il periodo preso come riferimento è quello che inizia ad ottobre 2020 quanto il prezzo del petrolio era a 40 dollari contro i 60 di un anno prima. Infine, “anche la selezione dei soggetti passivi cui applicare il nuovo “contributo straordinario” appare problematica: non vi è infatti alcuna distinzione all’interno delle filiere e delle diverse concrete possibilità di sfruttare l’aumento del costo delle materie prime, e vengono ad esempio messi sullo
stesso piano i produttori e i commercianti di prodotti petroliferi; eppure è noto che per gli impianti di distribuzione l’aumento del costo delle materie prime rappresenta appunto soltanto un costo, e non una occasione di lucro“.