Fanno davvero paura le sanzioni occidentali a Putin? In realtà, non molto. Ma paventarle, serve come “merce” di scambio nelle trattative. Ci sta, nella cinica visione geopolitica putiniana. D’altra parte, incombe sull’Europa che sta condannando Putin il rischio di una grave crisi finanziaria, anche tenendo conto della storica e viscerale avversione degli investitori alle misure di ritorsione che toccano ineluttabilmente l’economia reale. Lo scopo del Cremlino è evidente: destabilizzare le potenze occidentali grazie al ricatto energetico, ossia colpendo il polmone delle loro economie. E obbligandole ad una nuova ripartizione delle risorse mondiali, e anche di quelle tecnologiche (tra le conseguenze della guerra in Ucraina, vi è quella che coinvolge i servizi informatici, dagli acquisti on line alle prenotazioni alberghiere, dalle operazioni di sorveglianza alle operazioni bancarie: parecchie multinazionali hanno parte delle loro società basate nell’Europa dell’Est, in ballo ci sono un milione di dipendenti e sviluppatori).
Per fronteggiare strategicamente le sanzioni, la Russia dispone di riserve in valuta al momento di poco sopra i 630 miliardi di dollari, di cui una parte è bloccata in certi paesi. Inoltre vanta la quinta riserva aurea mondiale, pari a 2361,64 tonnellate d’oro depositate nei caveaux della Banca Centrale russa: gli Stati Uniti ne hanno 8134, la Germania 3362, l’Italia 2452 e la Francia 2436. Dal 2008, dopo la crisi finanziaria mondiale, la Russia ha cominciato ad acquistare oro regolarmente e in modo massiccio. Allora, il suo stock era di 500 tonnellate. Nel 2012 aveva superato la barriera delle 800 tonnellate, nel 2014 – in concomitanza con le sanzioni comminate per l’annessione della Crimea – i depositi di oro russo hanno raggiunto quasi mille tonnellate. Ma la vera accelerazione si è avuta nel biennio successivo: 1500 tonnellate nel 2016, 1900 nel 2018, 2300 nel 2020.
Negli ultimi cinque anni Mosca ha sviluppato all’estero quella che molti analisti occidentali hanno definito “shadow finance”, una vera e propria finanza ombra, parallela a quella dei mercati principali ma che opera clandestinamente o quasi, sfruttando l’uso delle cyber valute e del denaro sporco, sulla falsariga delle esperienze condotte per esempio dall’Iran e dalla Corea del Sud, o dalla grande criminalità organizzata, ma anche dai talebani o dall’Isis (che si finanziava col contrabbando del petrolio, col traffico della droga e dell’arte rubata).
L’export russo di gas e petrolio incide oltre il 55 per cento del bilancio statale, una risorsa vitale in valuta. Coi nostri soldi Putin ha riorganizzato ed ammodernato le forze armate. Per aggirare il taglio delle forniture all’Occidente – sempre che ci sia… – Mosca avrà considerato sbocchi alternativi, magari incoraggiando nuovi clienti con tariffe concorrenziali (vedi Cina, India, Turchia). Senza dimenticare che le sanzioni decise nel 2014 non sono state poi così efficienti come qualcuno potrebbe credere: da quel momento, la Russia ha progressivamente diversificato le sue relazioni commerciali, rafforzando l’autonomia della sua produzione industriale, ed aggirando il boicottaggio con sistematiche triangolazioni, tramite società ombra (con sedi sociali e nazionalità straniere), società dalle quali dipendeva e continua a dipendere un fitto reticolo di transazioni elaborate all’estero per gestire il commercio formalmente proibito dalle sanzioni ma violato allegramente da nugoli di imprenditori poco scrupolosi che coi russi hanno così fatto lucrosi affari: un segreto di Pulcinella, peraltro a cui ha fatto allusione lo stesso Putin quando ha messo in guardia l’Italia nel caso applicasse le sanzioni decise da Washington e da Bruxelles.
Ma non è solo un peccato italiota. Le Monde, la scorsa settimana, ha pubblicato cinque puntate (ognuna una pagina intera) di un’inchiesta sulle grandi aziende francesi che hanno mantenuto, nonostante le sanzioni, ottimi rapporti con la Russia e che non intendono (per esempio Total e Renault) rinunciare al ricco e indispensabile mercato russo. Aspettiamoci, poi, l’ennesima beffa delle “compensazioni” per i presunti mancati affari degli imprenditori nostrani con la Russia, quando venderanno lo stesso i loro prodotti a società intermediarie (in Serbia, in Cina…) che li gireranno a Mosca. Tanto paga Pantalone.