Gheorghe Ignat è alto quasi due metri. Ha una pettorina gialla che lo identifica come volontario. con su impresse le parole in ucraino “siamo qui per aiutare“, e un cappello con la visiera rossa e la scritta “Jesus“. Gheorghe è un ex lottatore di arti marziali, dieci volte campione rumeno di lotta greco-romana: in tutto il Paese è conosciuto come l’”orso dei Carpazi“. Condannato a quattro anni di carcere, da detenuto si è convertito alla chiesa evangelica e una volta uscito ha fondato “Fight for freedom” un’associazione per il reinserimento nella società degli ex prigionieri. “Nel nostro Paese il 75% dei detenuti torna in carcere entro un anno dal rilascio, mentre chi inizia un percorso con noi riesce a reinserirsi nell’80% dei casi”, racconta. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, però, Gheorghe e la sua associazione hanno riadattato da cima a fondo le loro attività e strutture per accogliere le famiglie in fuga, e molti ex detenuti si sono trasformati in volontari.
“Volevamo restare e combattere. Però dovevamo decidere: rimanere e lottare o proteggere le nostre quattro figlie. Solo per responsabilità nei loro confronti siamo partiti”. A parlare è Olesia, una signora ucraina sui quarant’anni, capelli scuri e voce spezzata dall’emozione. È seduta su un letto a castello in una stanza piccolissima, dove c’è appena lo spazio per muoversi. Nei letti di sopra le due figlie più grandi, Kati e Ika, 12 e 16 anni. Accanto alla madre, Masha, una delle due più piccole sta guardando un cartone animato al cellulare. Dall’altra parte della stanza in piedi c’è Igor, il marito di Olesia, che non parla quasi mai, ma segue il racconto della moglie annuendo ogni tanto. Tutta la famiglia è arrivata ieri a Suceava, capitale dell’omonima regione della Romania, dopo diversi giorni di viaggio da un paese poco distante da Kiev. Stanno riposando prima di riprendere il viaggio verso la Germania. Alloggiano alla “casa dei senzatetto” vicino alla stazione di Suceava, una delle due strutture gestite da “Fight for freedom”: i suoi abitanti, tutti ex detenuti, si sono trasformati in volontari che accolgono i rifugiati in partenza verso Bucarest. Gheorge intanto è all’aeroporto di Suceava in attesa di partire con un convoglio umanitario verso Černivci, città ucraina a quaranta chilometri dal confine rumeno. “Ci arrivano informazioni secondo cui in alcune zone dell’Ucraina le persone stanno iniziando a morire di fame, non hanno accesso al cibo anche per quarantotto ore di fila”, racconta, “per questo organizziamo convogli che trasportano beni di prima necessità. Da Siret, al di qua del confine, arrivano a Černivci, per poi raggiungere Kiev o Kharkiv”.
Dall’inizio della guerra sono più di mezzo milione le persone arrivate in Romania, anche se la maggior parte resta nel Paese solo pochi giorni. L’”orso dei Carpazi” ha organizzato un gruppo di 130 volontari, adattando le proprie strutture all’accoglienza di più di cento profughi: nei prossimi giorni si aggiungeranno altri duecento posti nel quartier generale dell’associazione. Lì i volontari forniscono un letto, un pasto caldo e docce, aiutano i rifugiati a contattare le famiglie e a organizzare il resto del viaggio. A ogni ospite sono foriniti asciugamani, giocattoli per bambini, lenzuola pulite e una Bibbia in ucraino. A cucinare sono sempre loro, gli ex detenuti. Altri volontari vengono dall’estero: Mariya Prykhodko, capelli ricci e sguardo sorridente, è arrivata da Washington insieme ad altri sette. È nata a Kiev, i genitori ucraini sono emigrati negli Stati Uniti quando aveva tre anni. Ora ne ha venti. “A casa mi sentivo inutile, l’unica cosa che potevo fare era pregare. Per questo sono venuta qua: parte della mia famiglia è in Ucraina. Ieri i russi sono entrati in casa di mio zio vicino Kiev, gli hanno portato via i telefoni e noi non abbiamo avuto notizie per tutta la giornata”. Tramite un altro parente ha saputo che stanno bene, però non possono comunicare con l’esterno: “Sono salvi, ma non possono parlare”. Mariya ha voluto essere qui per dare una mano ai connazionali e per rimanere in contatto con la famiglia del padre, morto di cancro l’anno prima.
Insieme a lei, in una delle stanze adibite a segreteria c’è Oksena, 42 anni: ucraina, viene da Irpin, una delle città più colpite dai russi. “Ho scelto di diventare volontaria per aiutare, solo tenendomi attiva riesco ad andare avanti. Quando mi fermo inizio a piangere e non riesco a smettere”. Mentre racconta la sua storia mostra una foto ricevuta qualche giorno prima da un amico rimasto in città: è la casa accanto alla sua, distrutta da un missile. Lei è scappata da Irpin la prima notte del conflitto, tra il 23 e il 24 febbraio, portando con sè le due figlie e le fidanzate dei due figli, che invece sono rimasti in Ucraina. “Ci siamo dati un’ora di tempo per fare le valigie. Dopo 15 minuti abbiamo iniziato a sentire i missili cadere e mia figlia è svenuta sotto shock“. Le cinque donne partono a bordo di una piccola utilitaria. “Tutta la notte ho guidato controllando continuamente da dove provenissero il fuoco e il fumo. Dieci ore dopo siamo arrivate al confine rumeno, dove abbiamo atteso in coda per quattro giorni”. Oksena ricorda già quasi incredula la vita prima della guerra: “Quando apro la mia agenda e penso ai progetti che avevo, trattengo le lacrime. Nulla di tutto ciò succederà, è saltato tutto”. Oksena prende parte al convoglio umanitario di “Fight for freedom” per portare beni di prima necessità in Ucraina. Nel parcheggio di un benzinaio a Nord di Suceava quindici furgoni sono in fila, pronti per raggiungere il confine ucraino. Sono le due di pomeriggio e una tempesta di neve copre il cielo e le strade. Prima di partire i volontari si radunano in cerchio e iniziano a pregare ad alta voce in un crescendo d’intensità. Nel giro di poche ore saranno a Černivci e Oksena potrà abbracciare il figlio più grande.