Il discorso che Volodymyr Zelensky ha tenuto di fronte al nostro Parlamento è stato abbastanza diverso dai precedenti in altri Paesi. Sullo sfondo delle somiglianze che ormai costituiscono la sua cifra stilistica, ci sono almeno un paio di differenze importanti. Comincio con la prima differenza, passo alle somiglianze e chiudo con la seconda diversità.

Innanzitutto, per la prima volta Zelensky non ha fatto nessun riferimento storico, e non lo ha fatto, ritengo, per due ragioni fondamentali. Da un lato, è rimasto scottato dalle reazioni negative suscitate dal suo riferimento all’Olocausto nel discorso al Parlamento israeliano. Imparando dagli errori, ha pensato fosse meglio andarci più cauto con i riferimenti storici. Dall’altro lato, essendo un comunicatore esperto, Zelensky si è giustamente adattato all’uditorio, evitando di proporre assimilazioni storiche (con le atrocità del fascismo? con la resistenza partigiana? erano queste le ipotesi che circolavano nei giorni scorsi), perché sicuramente è stato (ben) informato sulle polemiche che questi riferimenti spesso suscitano nel nostro Paese. Evidentemente, prima del discorso, ha avuto interlocuzioni con il nostro Presidente del consiglio e/o con altri esponenti del governo, in cui potrebbero avergli chiesto di evitare toni e contenuti che potessero metterci in difficoltà. O potrebbe averlo capito da solo. Il che ci ha risparmiato che certe bagarre di casa nostra assumessero una vergognosa visibilità internazionale.

Così facendo, Zelensky è stato decisamente spiazzante, il che è sempre utile in termini di efficacia, perché come minimo serve ad attirare l’attenzione e a far parlare.

La base di somiglianze che accomuna tutti i discorsi che Zelensky ha tenuto in questi giorni, incluso il nostro, è composta da questi tratti essenziali: la captatio benevolentiae all’inizio e alla fine, come nella migliore tradizione retorica (ringraziamenti ripetuti, lodi, apprezzamento degli interlocutori), il riferimento frequente alle emozioni di tutti (sue, del popolo ucraino, dell’uditorio), il racconto di episodi e la descrizione di scene di vita quotidiana straziata dalla guerra, il riferimento alla vita personale e alla famiglia (sua, del popolo ucraino, degli interlocutori), il presentarsi come una persona qualunque, uno del suo popolo, ma anche uno che potrebbe essere il vicino di casa, il fratello, l’amico di uno qualunque degli interlocutori a cui di volta in volta si rivolge.

Ed ecco infine la seconda differenza. Oltre a non aver fatto nessun riferimento alla storia italiana, per la prima volta non ha nemmeno chiesto, di fronte al nostro Parlamento, la no fly zone. La somma di queste due differenze ha creato, da un lato, il disorientamento di cui ho detto, ma dall’altro ha anche tolto al discorso la forza che gli avrebbero conferito il riferimento a situazioni storiche concrete, da un lato, e la richiesta pratica dall’altro. Perciò il discorso è risultato, nel suo complesso, meno incisivo, più generico, meno memorabile.

Tutto ciò va ovviamente compreso nel contesto in cui è avvenuto. Il discorso in Italia, infatti, viene dopo quelli in Canada, Regno Unito, Parlamento europeo, Stati Uniti, Germania, Israele. L’effetto di maggiore genericità e minore incisività proviene anche – è inevitabile – dalla ripetizione. Last but not least, non dimentichiamo che Zelensky è il leader di un Paese che vive sotto i bombardamenti da quasi un mese. Lui stesso rischia ogni giorno la vita. Inevitabile che, anche se cerca di non farlo vedere, sia fisicamente e psicologicamente non solo stanco, ma sfibrato, ai limiti della sopportazione. Glielo si legge negli occhi e ormai, all’ennesimo discorso, anche nelle parole.

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